La pazienza della crostata
UNOeDUESliceofLife
Ho sempre avuto qualche problema con la pasta frolla.
Ho impastato di tutto - pane, pasta, pizza, croissant e persino il panettone - e non ho incontrato la stessa difficoltà che ho avuto con la pasta frolla.
Ma mai arrendersi.
Insomma. Tutti sanno impastare la pasta frolla. Tutti sanno fare una crostata. La crostata è alla base della produzione casalinga di una qualsiasi donna cuciniera: non serve aver frequentato corsi di alta cucina. Basta guardare la nonna o la mamma che impastano e, praticamente, già sai come fare la pasta frolla. E perché io no? Perché non dovrei riuscirci?
Quindi: mai arrendersi.
Ho fatto un respiro profondo. Ho scelto un momento solo per me.
Il tempo, fuori, ha registrato un cambiamento inaspettato e spaventoso. Si è passati da quaranta a venti gradi, dal sole alla pioggia-vento-tempestadifulmini.
Il clima ideale per accendere il forno.
E l’idea che passa è proprio quella di cimentarsi con la crostata, quindi: di lavorare la pasta frolla. La cosa più difficile e, a volte, frustrante in assoluto.
In passato ho prodotto crostate ancora crude dopo un’ora e mezza di cottura, crostate che si sbriciolavano non appena le guardavi, crostate spumose che sembravano ciambelloni in forma di crostata - insomma: crostate fallimentari.
Pur seguendo quasi sempre la stessa procedura, il risultato era ogni volta diverso e comunque, come già ribadito, fallimentare. Il senso di fallimento - e frustrazione - aumentava al pensiero che tutti, ma proprio tutti, sanno metter su in due minuti una crostata. Senza troppe cerimonie.
Che ansia. L’ansia di non saper fare, come tutti, una banalissima crostata di confettura.
Solo poi, solo con l’ultima crostata fatta, ho capito quale era l’ingrediente che mi mancava.
Quindi: mi munisco del meglio del meglio che la filiera alimentare nostrana possa donarci. Burro delle Alpi, uova del contadino - di quelle col tuorlo grosso e giallo che tanto mi ricordano il pan di spagna alto e altrettanto giallo di una contadina che ci forniva di uova e verdure durante la mia infanzia - farina della nonna, quella che costa quattro euro al chilo, marmellata di albicocche nate dall’albero di casa e ridotte a confettura dalle mani della mamma. Se dovessi venderla, questa crostata costerebbe cinquecento euro.
È composta di Roba talmente buona che per forza di cose devo raggiungere il successo: un fallimento con prodotti di primissima qualità produrrebbe, dal canto mio, urla strazianti e rabbiose in cima all’abbaino del palazzo, in modo che almeno mezzo stivale possa sentirmi.
Faccio un gesto in più, apro i ricettari delle nonne, tra cui il Talismano della Felicità, quello sulla cui copertina campeggia il Mangiafagioli di Carracci. La signora Ada Boni, dall’alto della sua esperienza millenaria, mi impone una quantità di ingredienti precisa, ma anche un procedimento che molto implica quell’a occhio che solo le cuoche esperte sanno usare. Ad esempio, il pizzico di sale. O, ancora, quando recita: mescolate gli ingredienti senza aggiungere la minima quantità di acqua, perché tutto si amalgamerà perfettamente.
Questa è la frase che mi mette in crisi. Inizio a impastare. A mano, ovviamente. Sciolgo il burro con il calore delle mani. Dopo un quarto d’ora di lavoro muscolare, la situazione è sempre la stessa: farina e zucchero hanno inglobato tutto, nel senso che anche le uova e il burro sono diventate polvere. E, dalla polvere, è difficile ottenere un panetto liscio, elastico e omogeneo.
I pensieri sono i più turpi: butto tutto nel sacchetto dell’umido. Anzi no: nasconderò le tracce. Butterò tutto nel WC. Tanto non lo ho detto a nessuno del mio esperimento.
Ma poi torno in me: la marmellata di casa, la farina della nonna, le uova del contadino, il burro delle Alpi… ma siamo matti? Ma cosa butto? E poi, se Ada Boni dice che tutto si amalgamerà perfettamente, allora tutto si amalgamerà perfettamente.
Proseguo. Imperterrita. Ma soprattutto: paziente.
Ecco quello che mi mancava. La pazienza. Pazienza significa saper aspettare. Pazienza, attesa e potere demiurgico delle mie mani calde, di punto in bianco, producono una piccola pallina di impasto. Che poi diventa sempre più grande. E poi la pallina diventa una palla gialla senza striature. E poi diventa una grossa palla gialla ben amalgamata che è quasi un piacere da impastare. E proseguo, paziente e fiduciosa, col lavorio di mani, muscoli e concentrazione.
Ed eccolo: quel panetto perfetto e giallo ed elastico che doveva venire - e che ora deve solo riposare.
Mentre la piccola palla riposa, mi sento così galvanizzata dal successo che decido persino di fare altre cose contemporaneamente: tipo preparare la cena.
All’improvviso la cena è pronta e la piccola palla ha finito di riposare. È ora di darle forma.
E, con immensa sorpresa, stendere il cerchio da mettere nella crostatiera diventa facile. Anzi, FACILE! Non ci metto due minuti e nemmeno dieci, impiego mezz’ora, ma il cerchio poi si adagia perfettamente nel testo da forno. Svuoto il vasetto di marmellata della mamma nel cerchio di pasta frolla steso. E poi, poiché non sono un Michelangelo ma forse più un Pollock, decido di non fare le strisce zigrinate a copertura della mia crostata, ma una serie di palline e piccole strisce sottili, altre più spesse, disposte in modo disordinato ma coerente: forse, più che un Pollock assomiglio a un Mirò. Ecco: la mia crostata ha pure la personalità. E, in forno, fa una piccola ossatura di pasta frolla e la marmellata ribolle come un tenero cuore pulsante.
Nel frattempo torna a casa Lui, che guarda la crostata e dice che è bellissima, che il profumo è ottimo e il sapore, domattina, sarà all’altezza delle aspettative. Ecco: la pazienza, oltre alla personalità, porta a casa anche chi ti sa dare l'indispensabile botta di fiducia affinché tutto vada bene.
D’improvviso, capisco che prima nelle mie crostate mettevo l’ingrediente più acre - l’ansia. L’ansia di vedere che tutto si amalgamasse bene subito, l’ansia di sbagliare, l’ansia di dover buttare tutto nel secchio, l’ansia di cucinare qualcosa di cattivo. Ansia che c’è sempre ed è anche giusto che ci sia: perché quel pizzichino d’ansia aumenta la concentrazione e le prestazioni. Ma, in taluni casi, l’ansia va nascosta sotto il tappeto della pazienza.
Per fare una crostata ci ho messo un pomeriggio intero, il tempo ha avuto il tempo di fare un uragano, una tempesta di fulmini, una grandinata, di spazzare via le nuvole e far uscire il sole del tramonto su un cielo terso e freddissimo. Poi ho atteso tutta la notte, perché la crostata si posasse a dovere. A colazione ho tagliato piano, con cura, i triangoli di dolce e li ho poggiati su piattini appositi.
E la mia crostata era inaspettatamente, pazientemente: buona.
La più buona dell’universo.
Immagine: Edouard Manet, La coppia al Père Lathuille, 1879
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