Non voglio che il duemilasedici finisca
UNOeDUE Slice of Life
Non voglio che il duemilasedici finisca - dice lei con una fetta di panettone gocciolante tra le mani e lo sguardo fisso, imbambolato, di chi sta dormendo circa tredici ore a notte.
Eh - rispondo io, e non so se questo eh significhi che non voglio che l'anno finisca o che è destino che dovrà finire: ho lo sguardo imbambolato anche io, ma non perché dormo tredici ore a notte. Ho da provare tutti i regali tecnologici che il Natale mi ha portato - e francamente non ho nemmeno troppo tempo per dormire. I film, i videogiochi: mi chiamano.
Lei ci mette tre ore per inzuppare una fetta di panettone nel caffellatte e sembra godersi il Natale sin nei minimi dettagli: le tazze a tema, sfondo rosso e renna in primo piano, tovagliette bianche e fiocchi di neve rossi, il centrotavola natalizio, gli addobbi, le luci, il presepe che mormora con la cascata d'acqua - e quel tepore che solo le cose natalizie sanno darti.
Le colazioni, a Natale, durano giorni. È il momento più comodo, questo: il pigiama largo e sovrabbondante, possibilmente natalizio, e l'orologio spostato in avanti, tanto in avanti, ad orari che, in giornate normali, sarebbero dedicate al lavoro forsennato. Ma a Natale la colazione si fa tardi - e si fa abbondante - e poi il pranzo verrà quando verrà. Siamo sazi, ma mai abbastanza: e c'è sempre spazio per ricominciare a mangiare. Una seduta al tavolino senza soluzione di continuità, tanto che potremmo rimanere in pigiama, così, se non fosse che dobbiamo uscire e spiaggiarci nella casa ospitante di turno, quella dei genitori: e quindi darci un tono, vestirci bene, caricarci di vini e dolci e faticare quel tanto che basta per raggiungere il divano di mamma e papà.
VIGILIA. Elegantissimi e impellicciati, un vassoio in mano di involtini di salmone, una busta carica di regali dall'altra parte, lo stomaco che brontola perché a pranzo hai mangiato solo un'insalata. La sorella della mia lei è talmente in tiro che sembra dover passare la vigilia a casa del presidente della repubblica: tacco alto, unghie laccate e un'organizzazione militare nei gesti e nella voce. Mia moglie si trascina al seguito, ha indossato i tacchi ma non sa portarli, si è truccata e pettinata come un'adulta e tutti la ricoprono di complimenti, facendola arrossire. Suo fratello ha portato dieci bottiglie di vino bianco, indeciso, con aria da sommelier, se sia più indicato un Fiano di Avellino, un Greco di Tufo, una Falanghina: e fa da schermo a tutti coloro che tentano di attentare alla parte liquida della cena con un Ma scegli un vino meno impegnativo! Scuote la testa, i miei cognati hanno organizzato tutto nel modo più sofisticato possibile per esaltare la cena dei miei suoceri. Siamo venti persone a tavola e loro ci tengono particolarmente a che sia tutto perfetto. Perché la cena della vigilia, si sa, è solo l'inizio: e all'inizio siamo tutti ancora carichi di voglia di bellezza. Cenare in abbondanza, con le luci e l'apparecchiata glamour, è qualcosa di indispensabile, ti mette a posto col mondo, ti sistema la vita di solito impregnata di quell'approccio indifferente del "tutti i giorni".
La mia lei è estasiata e malinconica ad un tempo. Nelle vigilie di Natale vede il presente e contemporaneamente il passato e le arrivano agli occhi stralci e lampi del futuro. Ripensa a quando era bambina, a quando i nonni campeggiavano i capotavola e le nonne producevano profumi che mai ritorneranno e che per sempre rimarranno stampati nel nostro naso. Pensa a quando da bambina viveva il Natale come fosse un'atmosfera incantata, senza la capacità di distinguere tra il giorno e la notte, tra il pranzo e la cena, in una sospensione del tempo ovattata: i genitori erano i nostri maghi protettori, i nonni dirigevano la vita al meglio e la copertina calda e il gioco nuovo, passata la mezzanotte, erano i baluardi più imponenti contro tutte le paure.
Lei se ne sta sul divano, un po' di vino, tanto cibo e la faccia innocente: ed è subito bambina.
NATALE. Il venticinque la malinconia per i Natali passati si dissipa nel solito pigiama, nella solita colazione iperglicemica e, soprattutto, in una giornata di sole che spunta anche quando c'è pioggia. Il giorno di Natale è solare. Regna il buonumore. Finita l'attesa della mezzanotte, che tanto ha il sapore dell'obiettivo superlativo da raggiungere, torna la serenità del poter affrontare la giornata normalmente, solo che con un pizzico di specialità in più. La mia lei si veste comoda, ma di un comodo chic. Non si trucca, ma indossa quei due o tre gioielli che la rendono solare tanto quanto la giornata. La pelle delle sue guance è liscia, morbida, profumata di sapone e shampoo.
Il sole: il trucco più grande del giorno di Natale. Saper guardare le cose con il sole. Non spegnere mai lo sguardo. Perdersi nelle luci natalizie che sfumano nella luce del giorno. Lasciare accesa la vita del presente - e godersi solo quella - senza pensare al Natale passato o a quello futuro.
IL VENTISEI. Il ventisei dicembre l'atmosfera comincia a spegnersi. Solo che noi non ce ne capacitiamo: e continuiamo a mangiare e a festeggiare come se, per il terzo giorno consecutivo, fosse Natale. Il brodo e la stracciatella e il lesso e i fritti: mia suocera e mia madre imbandiscono una tavola satura e perfetta, come se ancora Natale dovesse arrivare. Eppure è solo un'illusione, un modo per non accettare che il bel giorno è già finito. La mia lei lo ripete come un mantra: Natale è già passato. E poi, visto che il ventisei è ormai ad un nulla dal nuovo anno, aggiunge: non voglio che il duemilasedici finisca. Si spiaggia sul divano, satolla, e io con lei. Il duemilasedici è stato un anno fortissimo, pensiamo all'unisono e senza dirci nulla. Abbiamo aperto l'anno sposandoci. Non è cosa da poco. E non vuole essere una ripetizione fastidiosa, questa del matrimonio. Del resto, noi uomini viviamo poche giornate estreme e bellissime, così, come se la vita fosse quella di un altro e non ci capacitiamo di esserne noi i protagonisti. E per il resto viviamo del ricordo, a cui rimaniamo attaccati con grande energia, un ricordo che raccontiamo e riraccontiamo e a cui diamo vita ancora e ancora. È bello mantenere il ricordo delle cose belle. È vitale. È imprescindibile. E perché il ricordo si faccia vita occorre che anche le giornate belle finiscano, con la promessa di inventarne altre, di giornate, altrettanto bellissime e degne di finire nella bacheca dei ricordi.
Festeggeremo la mezzanotte del trentuno dicembre duemilasedici con un po' di malinconia, questo è indubbio, ma lo faremo stringendoci la mano e guardando felici quella fede un pochino più opaca che parla di noi e del nostro anno. E che promette altro e altro ancora da vivere e ricordare.
Il ventisei dicembre finisce e finisce con una promessa: il prossimo festeggiamento, il prossimo Natale, la prossima avventura.
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