Speciale - IL VIAGGIO DI UNO E DUE parte terza
Il treno viaggia infinito - oltre ogni ragionevole tempo. Abbiamo atteso con una certa ansia che sul tabellone della stazione apparisse il numero del nostro viaggio, abbiamo perso una decina di chili quando il treno atteso sembrava dirigersi verso un'altra città e abbiamo riacquistato speranza scoprendo che, in realtà, attorno alle tre di notte, quello stesso treno sarebbe stato diviso in due: il nostro vagone nella città verso cui siamo diretti per continuare il nostro viaggio - gli altri vagoni, altrove.
Ci siamo sistemati in una casetta viaggiante di un metro per un metro, incluso bagno con doccia. Le valigie frigorifero che trasciniamo ormai da giorni occupano gran parte della cabina e noi non possiamo aprire uno dei due lettini. Ne rimane solo uno.
Vorrà dire che dormiremo stretti nello stesso letto! Dice lei saltellando, lei che, in questa cabina, si sente come in un guscio e - lo so - potrebbe pure viverci in pianta stabile, qui, tanto materno sembra questo guscio. Io allento il colletto del maglioncino, mi libero di tutto, sciarpa, cappello, giacca, guanti - e pure le scarpe. Mi siedo. Non ce la posso fare - mormoro. Lei attacca a ridere.
La mia claustrofobia ti fa ridere? Dico con la voce tesa, guardando fuori del finestrino alla ricerca disperata di spazi aperti.
Lei continua a ridere. Chiude la porta della cabina, perché altrimenti non si può aprire quella del bagno. Ma non deve andare in bagno. Deve solo fare un check della casetta che avremo a disposizione per - già! - ben tredici ore. Chiude il bagno. Saltella. Prende la scala a pioli - pericolosissima - e la poggia a una sorta di pianerottolo di dieci centimetri per dieci che dovrebbe servirci da appoggio per rotolare sul lettino del piano di sopra. Si arrampica. Io sudo. Poggia un ginocchio su quello che praticamente è un vassoio per due tazzine di caffè. L'altro piede rimane sospeso nel vuoto. Io tremo. Lei fa, ridendo: l'ultimo gradino è troppo basso, non riesco ad appoggiarmi! Ride tanto che non respira. Scendi, scendi, scendi subito!, urlo io isterico, l'afferro per le cosce nel tentativo di tirarla giù, ma rimaniamo bloccati così.
Dammi una spinta, mi dice, così rotolo sul letto!
Le faccio da appoggio, mi sradica una spalla, ma alla fine ce la fa. Rotola come un gatto ruffiano e coccolone sul lettino che avremo a disposizione per dormire. Io, tremolante. Lei: figo da quassù!
No - rispondo - io dormo seduto sulla poltrona!
Dormi quassù con me. Ribadisce.
Per scendere la situazione è più complicata. I suoi piedi non arrivano al primo piolo disponibile della scala e io temo che lei si lanci o, peggio, che cada senza nemmeno trovare un appoggio. Perché questa cabina sembra una torre, solo che piena di ostacoli: scale, valigie, tavolo, porta del bagno che si apre e oscilla. Alla fine, scivola giù lungo la scala, senza mettere nemmeno un piede su un piolo. Finisce in braccio a me, prosciugato dalla paura.
Alla fine, lei decide che io salirò per primo, per tirarla su. E poi scenderò per primo, per attutire il suo atterraggio. Non sono troppo convinto. Anzi. Mi sento dentro un carro bestiame che viaggia sospeso nel vuoto, nonostante abbiamo pagato un vagone notte deluxe. Ma lei è contenta - e va bene così. Soprattutto dopo che la capotreno, per antipasto, ci ha offerto due krapfen all'albicocca, buonissimi e goduriosi. Capisco che il termine deluxe ha un senso: bagno con la doccia, antipasto con krapfen e, ora, foglio da compilare con quello che vogliamo per colazione. Un vero banchetto.
Forza, dice lei: colonizziamo il posto! Tira fuori i nostri pigiami da una valigia inzeppata dal disordine di sette giorni di viaggio già trascorsi, durante i quali è impossibile riporre i vestiti con la stessa cura della partenza. Tira fuori a forza due palle di pile e lana, probabilmente anche piegate ad arte nell'ultimo hotel visitato, ma ridotti a stracci a causa della posizione verticale della valigia e a un miscuglio di oggetti di diversa natura posti a caso.
Dopo i krapfen, ceniamo. Con un mix di bretzel e insalata con cetrioli che qui, in zone asburgiche e teutoniche, non si sa come, hanno anche in pieno inverno.
In pigiama e rifocillati, ci rendiamo finalmente conto di essere stremati. Le valigie pesanti e lo stress di dover cambiare tre nazioni e - un po' - anche nostalgia di casa.
È il momento di dormire! Dice lei urlando e mettendo indice e medio a forma di vu: tanto è eccitata per la notte nel letto viaggiante. Non sono molto convinto, no: ma inizio a perlustrare la zona. Salgo e, lo so, sono solo quattro pioli di una misera scaletta, ma appena mi volto a guardare lei, in basso, tutta sorridente, mi sembra di stare in cima a un grattacielo. Mi affretto a mettere le ginocchia sul piccolo pianerottolo e poi a rotolare sul letto. Mi sporgo, dicendole È tutto ok, ti aspetto quassù! nel tentativo di fare il disinvolto. Ma guardo giù e dal letto, pur con una misera sbarra di protezione, il pavimento della cuccetta sembra l'abisso inarrivabile della Fossa delle Marianne.
Lei sale.
E io: ti muovi con troppa faciloneria.
Lei si aggrappa alla mia mano.
E io: l'afferro pure per i pantaloni del pigiama e la trascino a me. Mi rotola addosso, non riesce a muoversi, non riesco a muovermi: siamo incastrati. O meglio: oltre me c'è una parete che, in vista del soffitto, si incurva leggermente, togliendo spazio vitale e respiro.
Mi affretto a dire: tu dormi dal lato del muro - e faccio in modo che non ribatta. La attacco direttamente tra il mio fianco destro e la parete ricurva, sicuro che così non potrà muoversi né, soprattutto, cadere. Ma la verità è che in questo letto deluxe entra a malapena un bimbo di dieci anni: e basta che lei si muova perché sia io a finire nella Fossa delle Marianne.
I primi dieci minuti di tentato riposo sono una lotta. Io immobile, lei una furia. Cerca spazio vitale, prima distesa, poi su un fianco, poi sull'altro fianco, infine sperimenta me come materasso. Ritorna supina, ma non può tenere le braccia distese perché ci sono le mie braccia distese.
Se vuoi - le dico - io dormo giù, sulla poltrona. E tu qui stai comoda.
Non è questo il punto. Fa lei. Il punto è che mi manca il respiro. A destra ci sei tu che mi blocchi, a sinistra il muro, sopra il soffitto. Guarda: mi dice e tenta di allungare il braccio. Ma la sua mano tocca il tetto del vagone senza poter distendere il gomito. Ti prego, mi fa, cambiamoci di posto, sto per avere un attacco di panico.
L'attacco di panico lo avrò io pensandoti sul ciglio di un burrone! Le dico, ma non mi fa parlare, rotola sopra di me e mi costringe a prendere il suo posto - mentre io occupo il suo. Si mette sul fianco sinistro, con la faccia si rivolge al burrone. Si copre con la sua felpa e cade a dormire come un sasso in meno di cinque minuti. Sì, c'è la sbarra protettiva, ma non mi fido: decido di afferrarla per la felpa, così, qualsiasi scossone dia il treno, io la potrò tenere.
E il treno di scossoni ne dà tanti. Di notte, il viaggio diventa imperscrutabile e infinito sul serio. Sei ovunque e nel nulla, non sei a casa, ma sei da qualche parte, da qualsiasi parte - e allo stesso tempo da nessuna parte. Il paesaggio sfreccia veloce, ma tu non lo vedi, perché è buio e tutto si fa indistinto. Ogni tanto appare una luce abbagliante: è quando entri in stazione. Leggi il nome della città in cui ti trovi e ti ritrovi a fare pensieri su una stazione che non è la tua, su una città che non ti appartiene, ma che appartiene a qualcun altro per cui sarà la tua città a essere sconosciuta e straniera.
Tra le due e le cinque del mattino il treno rimane parcheggiato in uno degli ultimi binari di una stazione, la stazione in cui i vagoni si dividono, diretti in città diverse. Il treno è immobile, ma il senso infinito del viaggio si fa ancora più infinito. Mi sento un po' precipitare nel vuoto, un vuoto più profondo della Fossa delle Marianne che abbiamo per pavimento. Mi assale questo senso di essere nel nulla. Devo raccogliere le idee e rendere reale il magma della notte, per sopravvivere: sei su un treno, stai raggiungendo la terza tappa del tuo viaggio di nozze, quella, in teoria, più rilassante. Hai visto bei posti, mangiato tanto, vissuto vite altrui. Hai comprato ricordini deliziosi, hai camminato per chilometri, hai raccolto tua moglie un paio di volte dall'asfalto - dato che non faceva che saltellare e cadere, come un bimba che ha imparato a camminare da poco ma che decide già di sperimentare ogni sorta di suolo. Ecco: a questo pensiero mi scappa da ridere. È qui, in mano mia. L'appoggio del mio mondo. Ripenso al momento in cui l'ho riaccompagnata zoppicante in albergo, dopo la prima caduta dalla pista ciclabile al marciapiede. Le ho massaggiato la caviglia. Lei mi guardava con gli occhi gonfi di raffreddore, la bocca aperta per respirare e il cappellino di lana a coprire le orecchie.
Giro la testa verso di lei. Trattengo un lembo della sua felpa. La tengo per non farla cadere. L'ho tenuta per evitare una caduta ben più rovinosa da una rampa di scale, alla sua seconda perdita di equilibrio. La tengo ora e so che lei tiene me, in qualsiasi viaggio col finestrino veloce e impazzito affronteremo insieme. Dorme col respiro profondo. Prendo il suo ritmo. Il tempo annullato dalla notte si fa di nuovo tempo, tra un'ispirazione e un'espirazione nel pieno del sonno. Mi addormento anche io.
Quando mi sveglio, fuori è un giorno ancora timido, le indicazioni delle stazioni sono nella nostra lingua e lei sta tentando di scendere dalle scale senza di me.
Vado a dire alla capotreno che siamo svegli! Così ci porta la colazione! Ho una fame!
Le sue frasi sono tutte un punto esclamativo. E qualcosa mi sfugge, nel suo pigiamino di lana e fiocchetti rosa: non ha la felpa. Che è ancora nella morsa della mia mano.
Fammi capire, le dico deglutendo: tu... Tu non hai infilato la felpa, ieri sera?
No. Fa in modo candido. L'ho solo usata come copertina. Perché?
Prima atterrisco, poi ripenso a tutti i filosofeggiamenti fatti in piena notte - perché certi pensieri, di giorno, proprio non nascono: poi mi viene da ridere.
Sei una peste! Le dico. Ora però facciamo come dico io: torna a letto e scendo prima io, poi tu.
Scendo, attutisco la sua discesa. Finalmente, con i piedi ben saldi a terra, capisco che ho fame: una notte sospeso nel vuoto, a pensare e a tenerla. La colazione che abbiamo ordinato ci sta tutta. Affettati, pane, yogurt, marmellate, dolcetti, cappuccino. E finiamo di mangiare appena in tempo per scendere nella nuova stazione, pronti per la nostra nuova avventura.
Immagine: Claude Monet, Treno nella neve, 1875
Immagine: Claude Monet, Treno nella neve, 1875
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