Speciale - IL VIAGGIO DI UNO E DUE pt. prima
Cade la neve.
A terra si fa acqua.
Due cerchi d'oro scintillante,
eterno inizio, eterno percorso, si intrecciano mano nella mano sotto l'ombrello
fradicio.
I nostri piumini - fradici.
Le nostre scarpe - fradice.
Eppure le mani ribollono e le
guance esplodono di un calore rosso pungente, levigato, di quella perfezione
che hanno solo le bambole di porcellana.
In viaggio di nozze abbiamo
portato un solo ombrello - chi lo sa perché. Anzi, credo di sapere perché: è un
modo per stare ancora più stretti e uniti, nonostante il tempo. Nulla divide di
più di due ombrelli sotto la stessa pioggia. E a noi due ombrelli non servono.
Abbiamo camminato per più di
dieci chilometri tra chiese, musei, palazzi, piccoli angoli da scoprire – e
ancora non siamo stanchi. Siamo passati dal vagare culturale allo scrutare le
vetrine di questa piccola, ricca città teutonica e stiamo ridendo come pazzi.
Sfilano davanti a noi borse in pelle umana del valore di due stipendi, orologi
d'oro e diamanti per i quali saresti costretto ad aprire un mutuo ventennale,
commessi che sono vere e proprie bodyguard, con tanto di auricolare e occhiali
da sole anche oggi, con le nuvole e la tempesta.
Ridiamo, sì, ridiamo e ci
prendiamo in giro - Amore ho bisogno di cambiare orologio, tanto, ventitremila
euro per due lancette nascoste sotto il polsino della camicia cosa sono?"
Prendiamo in giro il nostro
tenore di vita, deridendo però quello paradossale di chi non deve pensare a
risparmiare anche solo per comprarsi un cappotto. Ripensiamo all'immenso
sacrificio per mettere da parte i soldi spesi per il matrimonio, per la nostra
idea di matrimonio - e siamo consapevoli di aver investito nel modo giusto, di
aver speso i giusti soldi per infilare l'eternità in un solo giorno. Penso ai
biglietti del cinema rimasti attaccati, ai sabati di pizza fatta in casa, agli
acquisti rimandati di un anno, pur di celebrarci a dovere, senza sfarzi ma nel
modo più vicino all'amore che proviamo l'uno per l'altra. Pensiamo che, in
fondo, sacrificarsi un pochino per ottenere qualcosa di bello è già bello di
per sé, ha il potere di unirti, di fare famiglia, di organizzarti come una
piccola ma efficiente comunità di sole due persone.
E il risultato è eccelso.
E ci godiamo il viaggio che ci
hanno regalato.
E facciamo tutto quello che
facevamo anche prima di sposarci solo che ora lo facciamo con una fede al dito
e, strano ma vero, come se facessimo tutto per la prima volta. Come se avessimo
ricevuto il dono di ricominciare tutto da capo.
La pioggia si fa fina, ma
insistente, inesorabile, con l’impressione che da sempre stia cadendo senza
pace. Sono le due del pomeriggio e fa troppo caldo per la neve. La neve se ne
rimane quieta nei nostri ricordi delle cinque del mattino, dal terzo piano
dell'hotel, due corpi abbracciati davanti alla vetrata e quattro occhi immersi
nella pace silenziosa dei fiocchi bianchi.
Giriamo un angolo e ci aggredisce
la chiesa più alta, più oscura e più gotica della città. Lei insiste per
entrare - è antica, è medievale, guarda che decori - io mi sento vagamente
inquieto. Lei mi tira, ma una volta entrati siamo costretti a sentire la messa
in tedesco. Il prete urla nella sua dura lingua, i fedeli più morbidamente
pregano in silenzio - e i nostri stomaci gorgogliano. Non preghiamo, non ci
inginocchiamo, né facciamo finta di guardare la chiesa che, a conti fatti,
all'interno, è troppo moderna e troppo brutta. Il suo stomaco fa ancora più chiasso
del mio e intorno a noi, seduti o inginocchiati sulle panche, i fedeli
cominciano a guardarci di sbieco. Lei non mi dice Dovremmo andare via. No. Dice
Qui di fronte ho visto una bakery meravigliosa! La fisso - avrebbe potuto farmi
evitare la figuraccia davanti ai fedeli, tra gorgoglii allo stomaco e la nostra
riluttanza a pregare. Sgattaioliamo via, ma non senza aver fatto rumore – lei non
è proprio l’incarnazione dell’agilità e per muoversi di corsa inciampa due o
tre volte, facendo inciampare anche me.
Un altro passaggio sotto la
pioggia che ci unisce. E poi ci rifugiamo nel calore di lievito e tè della
piccola pasticceria tappezzata di libri che la mia golosona aveva individuato.
Ordiniamo due pretzel imbottiti
di ogni sorta di verdura e salume. Poi un lievitato, alto e morbidissimo, con
un velo di glassa sopra, che tanto ci ha ricordato i nostri maritozzi. Infine,
una sorta di dolcetto intrecciato al sapore di noci, nocciole, mandorle e
cannella. Una tazza enorme e bollente di tè aromatizzato al tutto.
Fuori la pioggia si fa più intensa,
noi dentro a scaldarci il cuore e ad annusare l'odore del pane e della carta.
Afferra il simil maritozzo
teutonico, lo strappa, lo sfilaccia, ne osserva i filamenti e i buchi
dell'alveolatura. E all'improvviso mi dice: Ma tu... Ma tu ricordi che sul
nostro tavolo, il giorno del matrimonio, avevamo i panini? Panini piccoli,
sopra a un piattino d'argento?
Scuoto la testa. Non ho alcun
ricordo del pane. Ricordo il centrotavola, enorme, bellissimo, che prendeva
tutto il tavolo in larghezza. E che faceva da scudo a noi due sposini, stretti
stretti, sempre più stretti al nostro tavolo, incastonato tra due colonne e il
muro romano. Ricordo solo che avevamo inteso quel tavolo come una sorta di
nostro piccolo rifugio, un riparo dalle voci, dal caos, dai suoni indistinti
che parlavano solo di noi. Che ci esponevano, ci mostravano, ci rendevano
presenti agli altri, ma rischiavano di disperderci. Così, come ogni nostra
mossa nell'arco della nostra vita assieme, abbiamo iniziato ad annodare il filo
che ci unisce, a renderlo più corto, a creare la nostra minuscola casetta
viaggiante pur di fronteggiare la dispersione degli altri - le due colonne ai lati del tavolo, il muro
romano dietro di noi, a guardarci le spalle, i fiori davanti a noi, un piccolo
bosco in cui mimetizzarsi.
Lei continua. Neppure io ricordo
il pane. Ma so che, per contratto, doveva esserci. Forse - e aggiunge - forse eravamo
più attenti a barricarci che a notare certi dettagli, purtroppo.
Tanto caos, eh? Le dico,
lasciando la frase al vento, così, una frase nominale, senza gli appigli dei
verbi, dei soggetti e dei complementi. Quasi un grugnito.
Sì, fa lei. C'era tanta gente là per
noi. E francamente non mi sarei mai aspettata che tutta quella gente fosse lì per
noi con tutto qurll'entusiasmo.
Sai che significa entusiasmo? Fa
lei. Significa: con dio dentro di te. È una sorta di ispirazione divina. Erano
tutti lì, aggiunge, con tutti i sentimenti di fuori. Noi compresi. Anzi. Noi più
di tutti. Per questo eravamo entrambi così confusi.
Fortuna, penso io, fortuna che
nel momento in cui ci siamo detti sì e ci siamo promessi con un anello, ecco,
fortuna che lì eravamo coscienti e controllati. Quando controlli l'emozione ti
trema la voce. Non piangi. Reagisci e la fronteggi: per questo fremi, hai paura
e il cuore ti sobbalza. Ma, almeno, sei vigile e ricordi. Ricordi tutto. Glielo
dico.
Lei sorseggia tè e mi dice: in
quella sala c'erano centoventi persone oltre noi. Sembrava che ci fossi solo
tu. Non ho sentito nulla oltre la casetta viaggiante in cui eravamo a
scambiarci le promesse. E la stessa cosa quando siamo andati a fare le foto, da
soli, io e te. Ed è la stessa cosa che sto provando ora, con questo viaggio.
Le pizzico le guanciotte rosse di
pane e tè caldo. Parliamo e continuiamo a parlare di quel giorno. Perché l'uomo
non ha bisogno delle foto per confrontarsi con i propri ricordi. Ha bisogno di
analizzare a fondo quello che ha sentito alla bocca dello stomaco e nel cuore e
nella salivazione azzerata per dare un senso a momenti talmente forti che
rischiano di disperdersi - e di disperderti.
Nell'ultimo giorno di sosta nella
nostra prima tappa, ci accomodiamo abbracciati sulle panche di legno di questa
pasticceria piena di libri. Guardiamo fuori, oltre le finestre, vediamo le
guglie rivolte al cielo e le trasparenze di palazzi rivolti costantemente agli
altri. Ma noi ci concentriamo sulla pioggia che ritma i nostri pensieri e ci
scalda e ci unisce, protetti, insieme, sotto lo stesso ombrello.
Commenti
Grazie!
Sì, forse dovrei partire anch’io per un viaggio.
Chiudendo gli occhi.
O aprendoli?
Nel dubbio resto a marcire qui.
I miei migliori saluti
Tristam Strauss