La telepatia è il nostro canale di comunicazione preferito - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco; quarta parte - Torno a casa e mandorle ovunque; quinta parte - Perché, a volte, lei sparisce; sesta parte - Bella, mentre parla al vento sottovoce; settima parte - Si sveglia da un incubo; ottava parte - Ieri sera, tentando di leggere un libro; nona parte - L'impressione è che settembre; decima parte - Quelle domeniche d'autunno
La
telepatia è il nostro canale di comunicazione preferito – e mi sembra anche ovvio.
Sono convinto, siamo convinti che l’amore non sia per persone normali, l’amore
è un evento piuttosto eccezionale e per accoglierlo devi saper essere eccezionale
a tua volta. Sì, come avere dei poteri o cose così. Non lo dico solo perché lei
ha la sindrome che ha. Sì, forse c’entra anche quella, forse c’entra anche che
io sono un po’ bordeline – altrimenti come potrei stare con lei? Sarei un
missionario o un medico, non di certo un marito – forse c’entra che un pizzico
di follia, in testa, ce l’ho anche io, ma tant’è: abbiamo dei poteri che non
sono innati, no, si sono sviluppati pian piano solo dopo che ci siamo messi
insieme, secoli orsono. Capisco che ora questa cosa possa sembrare un po’ come
se fossimo due vampiri, ma non è così. È una cosa che, nella sua specialità, sa
essere molto normale. È una cosa normale – almeno credo – quando si è una
coppia così amalgamata, quando non riesci a capire dove finisci tu e inizia
lei. E viceversa.
Ricordo
benissimo quando, qualche anno fa, eravamo alla ricerca di una casetta tutta
nostra. Bastava che, di fronte all’agente immobiliare, ci tenessimo per mano.
Lui parlava, mostrava, apriva le finestre e noi a tenerci per mano, lui alzava
le serrande, mostrava gli attacchi e noi a tenerci per mano, lui gas, acqua e
luce e condominio e proposta e noi a tenerci per mano, poi arrivava il momento
di lanciarci un’occhiata: ma che sta
dicendo questo? – non lo so, non mi convince – questa casa è troppo buia –
questa casa è troppo bassa e via dicendo così, finché le uniche parole che
uscivano dalle nostre bocche erano Va bene, grazie, ci pensiamo. Ricordo
altrettanto bene che, quando la casa l’abbiamo trovata, dal tenerci per mano
siamo passati a fasciarci con le braccia, creando un incrocio perfetto e
vicendevole sulle nostre schiene.
Be’
– è successo anche di recente. Abbiamo fatto uno sforzo sovrumano e siamo
usciti a mostrare le nostre manine sinistre al gioielliere. Il gioielliere ha
messo sul bancone illuminato una serie pressoché infinita di fedi, oro giallo,
oro rosa, oro bianco, oro giallo con brillante, oro bianco con diamante,
coroncina di diamanti, oro rosa che sfuma nel giallo, oro giallo che sfuma nel
rosa. E poi: sette grammi, cinque grammi, quattro grammi, francesina, cinque
millimetri, tre millimetri e mezzo, tre millimetri. Insomma: anche io che adoro
la matematica ho finito per odiare i numeri. Il gioielliere comincia a tirarci
fuori, poi, tutta la serie di fedi strane, particolari, eccezionali. Noi due
non una parola.
I
suoi occhi: ne voglio una semplice,
dicono.
I
miei occhi: ne voglio una sottile, sono
un uomo, non mi piacciono le patacche d’oro.
I
suoi occhi: sottile, semplice e d’oro
giallo.
I
miei occhi: sì. E penso: perché,
seppur con i poteri, la telepatia e l’eccezionalità del caso, noi vogliamo
semplicemente avere al dito il segno del nostro matrimonio – e nient’altro. Un’ultima
occhiata, un battere di ciglia, io e lei che in testa abbiamo mille
ragionamenti condivisi e il gioielliere che ci guarda attonito, perché un
silenzio come il nostro, di fronte a tanti gioielli, non lo ha mai sentito.
Apro bocca: La vogliamo sottile e d’oro giallo.
E
poi è successo ancora una volta, perché è un periodo talmente carico di
emozioni e sovrastimolazioni che noi non possiamo far altro che sfogarci nel
nostro piccolo e caldo mondo privato. Abbiamo consegnato la partecipazione di
nozze ad un’anziana zia di non so quale dei nostri genitori – sì, capita anche
questo tra due persone che stanno insieme da secoli e che non si distinguono
più: non distinguono più nemmeno la parentela. E, insomma: l’anziana zia di non
so chi ci fa una ramanzina lunga così, perché siamo grandi, perché già
conviviamo, perché, forse, sarebbe stato meglio aver fatto prima un figlio e
arrivare all’altare anche con un pupo da battezzare.
La
voce della zia di non so chi diventa un’eco lontana. I nostri occhi diventano
due fessure sottili sottili, di quelle che sparano solo frasi taglienti
I
suoi occhi: ha detto che siamo grandi. Non starà mica dicendo che sono vecchia?
I
miei occhi: abbiamo da poco superato i
trenta, lasciala perdere.
I
suoi occhi: ha detto che siamo troppo
vecchi per fare figli.
I
miei occhi: e poi ignora che non ci
sposeremo in chiesa.
I
suoi occhi: forse dovremmo fuggire da
questa conversazione prima che lei apra la partecipazione e legga del comune.
E
arrivano le mie parole: Cara zia, ho la macchina in divieto di sosta. È stato
un piacere, l’aspettiamo al matrimonio.
Non
prendiamo nemmeno l’ascensore. Facciamo sette piani di corsa, a volte salto due
scalini o lei mi spinge o io la bracco per superarla. Il punto è uno: il
secondo potere che una coppia come la nostra sviluppa dopo la telepatia è il
ritorno allo stato infantile. Non da intendersi come una cosa dispregiativa,
anzi, tutt’altro. È un ritorno ai momenti più puri dell’essere bambino, quando
scopri tutto per la prima volta, quando ti diverti a fare tutto per la prima
volta. Noi, ecco, noi non siamo adulti, noi non stiamo facendo gli adulti,
siamo due bambini che giocano a fare gli adulti e per i quali la casa o il
matrimonio o anche solo fare la spesa al supermercato è un’avventura, un gioco
tutto nuovo.
Mi
ruba dalla tasca della giacca le chiavi dell’auto, parcheggiata perfettamente
entro tre strisce bianche.
Guido
io, mi dice.
Accende
i fari delle luci di posizione, mette in moto. Parte.
Cosa
dobbiamo ancora fare? – le chiedo
Ah,
non so, credo che abbiamo fatto tutto.
Una
cosa c’è ancora da fare – le dico e respiro a fondo – dovresti scrivere la
promessa, la formula per scambiarci gli anelli. Ricordi? In Comune ci hanno
detto che possiamo personalizzarla.
Lei
si irrigidisce, spegne la voce, chiude la testa, privandomi dei suoi pensieri e
dei nostri poteri.
Ma
forse no.
Cammina
piano, con l’automobile. Si guarda attorno. Si ferma ai semafori. Fissa il
rosso e poi il verde e poi la linea bianca di mezzeria e poi ancora i freni che
si accendono e spengono dell’auto di fronte a noi. Imbocchiamo la strada dritta
che ci porta verso casa nostra. La via è senza lampioni, la carreggiata è nera
e sembra inghiottirci, ma i fari della nostra automobile illuminano il buio e
noi percorriamo la strada scoprendola piano piano. Parcheggia, tira il freno a
mano, spegne il motore, mi guarda. La macchina in breve diventa fredda. Qualche
piano più su, ci aspetta una casa, scelta anni fa tra un abbraccio e
un’immaginazione fervida, una casa pervasa del calore dei riscaldamenti e del
profumo della cena. Le sue iridi baluginano di un nero vivido, fatto del fuoco
del ghiaccio, e mi raccontano di un’auto che, di sera, col freddo, parcheggia
sotto casa. Mi raccontano di un
ascensore che sale e di un portone che si apre, sprigionando la firma,
il segno di una vita – che siamo noi due.
Le
dico: Bella. Mi piace la tua promessa.
Sorride.
Si gira dall’altra parte per aprire lo sportello e uscire. I suoi occhi si
illuminano come due fari e io non mi stacco mai dalla loro luce per percorrere
la strada verso casa.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Amanti sdraiati (particolare), 1902
Soundtrack: Silence
Commenti
P.s. In un post - Blogger Doc "a loro ci voglio bene" - ti ho citata. E ti citerò anche domani ...