Quelle domeniche d'autunno - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco; quarta parte - Torno a casa e mandorle ovunque; quinta parte - Perché, a volte, lei sparisce; sesta parte - Bella, mentre parla al vento sottovoce; settima parte - Si sveglia da un incubo; ottava parte - Ieri sera, tentando di leggere un libro; nona parte - L'impressione è che settembre
Quelle domeniche
d’autunno grigie, piovose, un po’ rallentate, hanno il potere di rallentare e
rendere grigia anche la mia lei, che si arrende all'umore monocorde di un tempo atmosferico sospeso e surreale. Il grigio della pioggia diventa cielo e il cielo dà due colpi di pennello alle case, alle strade, alla luce nebbiosa del sole, fioca e tiepida. Lei si sdraia sul divano o sul nostro letto ed è in grado di fissare nuvole e nebbia senza sosta, come se fosse alla ricerca inutile di un guizzo colorato. E, tra nuvole, pioggia e pensieri che cominciano a sgorgare decontestualizzati, finisce per deprimersi.
Mentre lei si lascia andare al sentimento più fiacco guardando
la pioggia di ottobre, io mi metto di buona lena a correggere i primi compiti in
classe dei miei ragazzi. Io in pigiama, lei in pigiama. Io seduto al tavolino, immobile, lei davanti alla finestra, immobile. Poi
si alza, sparisce in bagno, torna fresca di doccia e di abiti puliti e lascia al suo passaggio
una scia di sapone al bergamotto e deodorante al tè verde. I capelli perfettamente
pettinati, nonostante non siano previste visite o uscite. Prende di nuovo posto
davanti alla finestra, sdraiata sul divano. Io comincio a sentirmi in colpa.
Ti va di fare qualcosa
insieme? – le chiedo. Ma alza le spalle, mormora soltanto Tra poco vado a
cucinare.
Si alza di nuovo, lega
i capelli in una coda, mette il grembiule e si ritira dietro l’angolo cottura –
benedetto angolo cottura in sala, sì, qui, proprio davanti a me, così posso
guardarla e controllarla e stare con lei anche se, in teoria, per quel che
stiamo facendo, dovremmo trovarci in due stanze diverse.
Che cucini oggi? – le
chiedo. Ma alza le spalle e mormora alla pentola di fronte a sé Sto
decidendo.
Fissa talmente tanto la
pentola che quasi sembra infilarci dentro la faccia. Lo so, so che non sta
decidendo cosa cucinare: sta inseguendo un pensiero pungente. Che,
prima o poi, oggi, uscirà fuori.
Torno alle formule
matematiche, impazzite sotto le penne dei miei ragazzi. Sento lei battere la
carne sul tagliere, commentare ogni suo gesto con un Ok o Fatto o Bene. E dopo
poco arriva alle narici odore di buono e ci metto un po’ per capire che
dall’olio che sfrigola si passa all’odore della carne rosolata e poi alla cipolla
e poi al pomodoro – e poi ancora arriva una lontana eco di formaggio filante.
Che fai? – le chiedo. Alza
ancora le spalle e risponde Faccio l’impasto per le fettuccine.
Muove la schiena con
ingenuità e così le mani, senza l’esperienza e l’imponenza matronale delle
nostre nonne, che di pasta in casa ne hanno fatta a quintali. Eppure il
risultato è lo stesso, o quasi. Le fettuccine sono chiare, cristalline, pure
come lei, come le sue mani, che sembrano far tutto per la prima volta. Come
fosse una bambina. Lascia le fettuccine sulla spianatoia, arrotolate e
infarinate, simili a stelle filanti. Toglie il grembiule, accorcia ancora di
più i capelli raccogliendo la coda in uno chignon alto ed esplosivo.
La guardo scivolare sul
parquet con le ali ai piedi.
E ora che fai? – Le
chiedo. Fa spallucce e indugia prima di rispondermi. Dice ehm tre o quattro
volte, trascinando il monosillabo, e alla fine risponde di una risposta lenta:
pulisco qualcosa per bene. Dice. Ma molto per bene. Aggiunge. In maniera
approfondita. Spiega.
A questo punto i miei
sensi di colpa sono ovunque e il mio cervello non è in grado di capire neppure
quanto faccia due più due.
Ascolta, amore –
biascico – senti, dai, smettila, è domenica anche per te.
Fa un gesto con la mano
come per scacciare le mie parole, è un Lascia perdere che aumenta a dismisura i
miei sensi di colpa.
Facciamo che, dico,
guardiamo un film? Ti va?
Ma guarda che io non
sto lavorando. Dice urlando dal bagno. Poi torna in cucina, apre lo sportello
dei detersivi e prende l’aceto che usa per pulire. E aggiunge: sto facendo una
tabella di marcia.
Tabella di marcia per
cosa?
Per il matrimonio.
Ma hai idea di quanto
manchi ancora?
Non poco tempo. Ma
neppure troppo. E devo fare in modo che sia tutto perfetto.
Tipo? - Le chiedo
gettando la penna rossa sull’ultimo compito in classe, che ho letto senza
capire. Come sempre avviene quando lei è in agitazione: leggo le cose senza
capirle.
Tipo: la casa deve
essere tirata a lucido, ma devo iniziare svariati giorni prima. Quindi, adesso cerco di capire quanto ci metto a pulire per bene una cosa alla volta. Una
cosa al giorno. E poi – aggiunge dopo che l’ennesimo strampalato pensiero le colpisce
la testa così, a caso, portato dal vento, come un soffione – e poi un sabato di
questi dovremmo partire da qui, da casa nostra, una mezz’ora prima della
cerimonia e vedere quanto ci mettiamo ad arrivare in comune col traffico. Così
capiamo a che ora è meglio uscire.
Perdonami. Ma questa è
follia. Le dico senza troppi giri di parole. E poi io che c’entro? Sei tu
quella che arriva per ultima, esci e prendili tu ‘sti benedetti… tempi. Nemmeno fossimo allenatori alle
olimpiadi.
Al contrario di quanto
faccio sempre, cioè tenere per me i pensieri più rudi o che possano graffiarle
troppo la sensibilità, ecco, le ultime tre righe le dico ad alta voce.
Sbattendo a destra e sinistra la penna rossa dei compiti. E non contento
aggiungo: guardiamoci un film o… o facciamoci due coccole se proprio vuoi fare
qualcosa.
Avete presente quel silenzio carico tra il fulmine e il tuono? Ecco, è il silenzio la prima
cosa che sento ed è la prima cosa che mi turba e mi distrugge e mi fa venir
voglia di riavvolgere il tempo. Ma è inutile. Quando sento il silenzio tra il fulmine e il tuono è già tardi. Lei. Lei sta già piangendo. E
non è andata in bagno o in camera da letto o sul terrazzo o chi sa dove,
cercando di riprendersi senza farsi vedere da me. No: piange davanti a me,
tanto che mi viene il dubbio che stia piangendo per finta, come i bambini che
strepitano senza lacrime. Solo per capriccio. Ma lei le lacrime ce le ha e il
suo non è un capriccio.
Mi alzo, l’abbraccio,
le sfilo la bottiglia di aceto dalle mani e la poso sull’isola dell’angolo
cottura.
Mi auguro che tu non
stia piangendo per il tempo della corsa in automobile.
Strofina la testa da
sinistra a destra lungo il mio petto. Singifica: no.
E allora perché?
Ho paura di non fare in
tempo. Mormora. A vestirmi, truccarmi, pettinarmi. Forse – e tira su col
naso – forse chiederò alla parrucchiera se mi fa un’acconciatura non troppo complicata,
così ci mette di meno.
Ma che dici? È una
professionista, saprà come fare. Ma che paure sono queste? Di solito, che so,
si ha paura che lo sposo scappi dall’altare o si ha paura di mettere un anello
per sempre, ecco, queste sono le paure che si provano in certi casi. No?
No. Dice ferma.
Allora, dai, dimmi che
paura vera hai, perché pulire il
bagno o farsi acconciare i capelli in tempo sono solo scuse.
Mi guarda un istante
negli occhi. Lei che non lo fa mai. È un istante lunghissimo, in cui le sue
iridi bagnate baluginano di un colore nero lucente che non le ho mai visto.
Magnetiche, catturano, risucchiano, se le guardi troppo a lungo entri nel suo
mondo e, se cominci a pensare come lei, sei destinato a salire su un ottovolante che
non si ferma mai.
Lo so, lo so che è il
mio, il nostro matrimonio - dice - ma ho paura di stare al centro
dell’attenzione. Ho paura che tutti mi guarderanno, che tutti mi toccheranno
come la statua di un santo. Ho paura che tutti mi saluteranno, mi baceranno, ho paura di
dover dire a tutti una frase di circostanza, quando, invece, vorrei solo
sposarmi con te. Ho paura di non riuscire a controllare le emozioni e lo sai
che io non le controllo e lo sai che quando non le controllo piango anche se
non sono triste. Ecco, ho paura di piangere solo perché sono emozionata e io
quando piango davanti a tutti muoio di vergogna. È un serpente che si morde la
cosa, capisci? Io non voglio avvicinarmi a te e all’altare e piangere o ballare
con te e piangere o recitare la formula e piangere, scambiarci le fedi e piangere.
Mi odio al solo pensiero. Non voglio che la voce mi si strozzi. Capisci di che
ho paura? Devo fare una cosa tanto importante davanti a tutti.
L’ottovolante è al suo
millesimo salto nel vuoto, la mia testa gira, ma io non riesco a staccarmi dai
suoi occhi penetranti e maledettamente erotici. E dice un’ultima cosa. Che fa
fare alla giostra un giro sottosopra e noi due, insieme, ce ne andiamo a testa
in giù:
Ti prego, dice, ti
prego, insegnami a sorridere.
L’ottovolante fa una
sterzata violenta prima di frenare. Mi stacco dai suoi occhi, i miei roteano e
vedono le stelle, ho bisogno di sedermi. Lei non mi stacca lo sguardo di dosso.
Occhi penetranti e maledettamente ingenui, due tranelli in cui cado sempre, pur sapendo che sono tranelli – e non vedo l'ora, ogni volta, di poterci cadere di nuovo. Il
viaggio vorticoso nella struttura dell’ottovolante non è immergersi nella sua paura.
Non è abbandonarsi ai suoi pensieri, non è il timore di piangere o
stare davanti a tutti.
Il vero giro
sull’ottovolante è la richiesta. Insegnami a sorridere. Non pensate che sia la
richiesta più struggente che vi possa essere fatta? E, all’improvviso, capisco
perché provi tanta paura nel dover pronunciare una formula davanti a un
officiante e a tanta gente. Lo capisco, subito. Non c’entra nulla la sua
sindrome. C’entra solo il fatto che, quando sei lì, e dici tutte quelle cose preimpostate
e bla bla bla, stai promettendo che la farai sorridere e le stai chiedendo di
fare altrettanto. Le stai promettendo che l’abbraccerai e le chiedi altrettanto.
Le stai promettendo di baciarti e le chiedi di fare altrettanto. Le stai
promettendo di stringerle forte le mano nel viaggio infinito sull’ottovolante e
le chiedi di ricambiarla, quella stretta. E di urlare all'unisono per la sorpresa e
l’emozione e di riprendere fiato assieme. E, insomma. È una promessa piena di
responsabilità. Non è solo un sì. Ecco. Ora un po’ di paura è venuta anche a
me.
Sai, le dico, sai come
si fa a sorridere? Scuote la testa.
Metto i pollici agli
angoli delle sue labbra e tiro su la pelle. Scoppia a ridere.
E poi non puoi
piangere, le sussurro. Ci sono io vicino a te. Mica ti sposi da sola!
Alla fine scegliamo un
film, un film con un migliaio di zombie stanchi e affamati in uno scenario
fumante e diroccato, e decidiamo di vederlo sotto una coperta, sul divano, in
attesa che lo stomaco si apra abbastanza per pranzare. E, anche se ora siamo
calmi, qui, tranquilli, sul divano a non far nulla e a pensare a tutt’altro,
ecco, io ho sempre l’impressione di viaggiare su un ottovolante – e guai se
avessi voglia di scendere. È il mio cuore che batte all’impazzata e batte
all’impazzata perché non batte da solo: è incalzato dal suo cuore, che accelera
e rallenta il ritmo finché entrambi i muscoli non battono all’unisono. È
la promessa di godersi il viaggio, col sorriso fresco dell’aria che sferza
improvvisa e che ci accarezza delicata la pelle.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Coppia che si abbraccia, 1898-1899
Soundtrack: Tenth Avenue North, Beloved
Commenti
Stupenda anche questa puntata del racconto. Belli anche i disegni. Chi è l'autore/autrice?
Buon fine settimana.
Grazie ancora per le tue parole. A presto!!