L'impressione è che settembre - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco; quarta parte - Torno a casa e mandorle ovunque; quinta parte - Perché, a volte, lei sparisce; sesta parte - Bella, mentre parla al vento sottovoce; settima parte - Si sveglia da un incubo; ottava parte - Ieri sera, tentando di leggere un libro
L'impressione è che
settembre sia sempre un mese di passaggio. Non è finita l'estate,
non è ancora arrivato l'autunno, eppure le giornate alternano
schizofreniche brividi caldi e temperature frizzanti. Non si tratta
di un caldo e di un freddo netti, precisi, definiti. Il caldo è
sempre un po' inficiato da punti d'ombra non più refrigeranti ma
carichi di quell'umidità pungente che penetra la pelle e ti
costringe a indossare il primo pullover della stagione. L'aria non è
più densa di quell'afa spessa e che scolorisce i colori delle case,
delle colline e del cielo: il cielo è brillante e il sole acceca, ma
non scalda più come prima.
È un mese di passaggio,
settembre. E forse è il mio mese preferito. Ha questa gentilezza,
settembre, ha la gentilezza di elencarti – e prometterti – tutto
quello che sarà l'inverno. Ti promette freddo e sciarpe e colli
alti, zuppe sul fuoco e latte caldo di sera, prima di andare
a dormire. Ti promette il vento forte che denuda gli alberi e piega i
fusti e quel sole alto e bianco che, con un po' di tramontana,
asciuga il bucato in men che non si dica. Ti promette pantofole,
divano e coperta – e correre da una parte all'altra della città
con le guance rosse e il fiatone, sotto l'ombrello, gli stivali alti
e le pozzanghere che rischiano di diventare ghiaccio. Settembre è un
assaggio - e tutto il bello di questo mese è nel pregustare il
tepore invernale delle giornate in cui puoi stare assieme a chi ami,
magari a sgranocchiare castagne, a bere un caffè bollente, a lavare
i piatti di una domenica abbondante, mentre affondi nel letto e fai
chiacchiere da dopo cena pieno di coccole. Settembre è quando versi
nel calice vino rosso d'annata: e, prima ancora di berlo, lo
lasci roteare nel cristallo e lo
assapori con le narici.
Anche quest'anno
settembre mi ha promesso qualcosa e io già ne immagino il sapore.
Mano nella mano, io e
lei. Appena usciti dal Comune della nostra città. Un silenzio
penetrante, un pensiero fisso, emozione e leggerezza nel cuore.
Forse, non è proprio settembre a prometterci qualcosa. Siamo stati
noi due a farci una promessa. E – ovvio – abbiamo intenzione di
mantenerla.
Questa promessa passa per
tanti passi, ancora. Molti sono già stati percorsi. Altri verranno.
Alcuni si nutrono di immaginazione fervida. Pranzo, cena, ospiti,
foto, video, fiori, regali. Altri ancora devono passare, per forza
di cose, attraverso la riflessione: perché all'improvviso potresti
trovare tutto immotivato e inutile e decidere di lasciar perdere. E
invece no. Serve tutto. Serve anche l'impalcatura.
Ad esempio, io e il mio
vestito.
Per uno come me, non
troppo abituato a vedersi con indosso il completo elegante, scegliere
un completo firmato e che ha uno scopo di non poco conto è
stata quasi una questione esistenziale. Filosofica, direi. Un
percorso.
Sono tutti lì, mia
madre, sua madre, mio fratello e lei. Sua madre commenta pacata. Mia
madre tenta di sistemarmi colletto e cravatta, con il solito istinto
materno di vestirmi, anche se i trent'anni li ho superati da un po'. Mio
fratello, gambe accavallate e pugno chiuso davanti alla bocca a
pensare al miglior taglio per il mio fisico. Mio fratello si alza, mi
tocca le spalle, fa scivolare le mani lungo la schiena e prende le
misure della mia vita e dei miei fianchi: questo è troppo lungo,
questo è troppo corto, questo è troppo vecchio, questo è troppo
nuovo. Io sbuffo. Lui si diverte a farmi da personal stylist, serio,
serissimo se si tratta di abiti. Sbuffo – e all'inizio penso che un
abito è solo un abito. Mi volto appena e vedo lei, la mia lei,
seduta sul divano a mordersi il pollice per controllare il caos di
emozioni e persone che la attraversa. Agita le gambe, non dice una
parola e io aspetto solo un suo sussulto, per scegliere. Penso, ora:
se fosse solo un abito, perché mai l'avrei portata qui, a
sceglierlo, ad aiutarmi a sceglierlo? La risposta è chiara,
cristallina come le giornate di sole settembrine: l'ho portata perché
non è solo un abito. Perché dietro quest'abito c'è un sì –
davanti allo stato o a dio, qualunque sia il sapore di questo sì –
ma è un sì che nasconde un impegno, è un impegno reale, è un
impegno vero, c'è un mucchio di scartoffie da presentare, da
richiedere, da firmare, da far pubblicare, ci sono dei timbri, dei
bolli, delle piccole tasse da pagare – sì, burocrazia. Ma più
maneggi carte e più ti accorgi che la cosa è vera sul serio. Che un
giorno, tra duecento anni magari, qualcuno aprirà un registro e
leggerà che io e lei abbiamo deciso di essere una famiglia, i nostri
due nomi saranno uniti, oggettivamente uniti, non saranno solo due
iniziali con un cuore scarabocchiate su un banco all'università,
cancellate dall'alcool denaturato della donna delle pulizie. È vero:
potremmo uscire una mattina, io e lei, jeans, scarpe da ginnastica,
maglietta che forse meriterebbe un giro in lavatrice – e potremmo
mettere due firme, con due passanti scelti per testimoni e risolverla
così, senza troppi fronzoli. Il punto è: se il fronzolo non è
vuoto allora non è più un fronzolo, è necessario. Se sotto il mio
abito da sposo da passerella ci sono una pubblicazione e una promessa
e due nomi uniti in un ufficio di stato civile, allora che abito da
passerella sia. Chi, più di me, può festeggiare?
Indosso un abito
particolarmente comodo e particolarmente avvitato. Mi fa le spalle
larghe, mi sta da dio. Mi volto. La guardo. Le sue iridi baluginano,
umide, silenziose, e allora dico: prendo questo. È l'abito con cui
ti dirò sì, penso. E, se ti emoziona, è l'abito giusto.
Questo è il percorso che
ho fatto. Un'altra tappa.
E ora, con le mani
strette a passeggiare sotto le querce del viale in centro. È durato
tutto cinque minuti, in quell'ufficio. Non siamo ancora sposati, ma
quasi. Non siamo marito e moglie, ma quasi. Non è ancora inverno, ma
quasi. E ce ne stiamo muti. Perché è come se stessimo cambiando il
nostro status da studente a laureato. Il giorno della laurea, anziché infilare pantaloni sdruciti come si fa per un qualunque esame, indossi il completo elegante. Perché sai che è diverso, perché sai che l'abito, in quell'occasione, non è un involucro, ma rappresenta quello che sei e stai diventando.
Ce ne stiamo muti, sì.
Ibridi eppure emozionati.
Non dici nulla? - le
chiedo
Prendiamo un gelato? -
risponde.
Sorrido, la avvicino a
me e ci incamminiamo verso la gelateria, abbracciati, col passo
ritmato, all'unisono. Le stampo un bacio tra i capelli.
Come dice quella canzone?
Come fa il verso di quella canzone? Sono solo, sono il suono del mio
passo.
Eccolo, il mio passo, in
questo giorno di settembre, né caldo, né freddo, né estate, né
inverno. E poi, un istante dopo, arriva il suono del mio passo, che
però non è il mio. È il suo. È un camminare all'unisono: che mi ricorda che il passo, per essere uno, ha sempre bisogno di due gambe che si incrocino.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Amanti, 1908
Soundtrack: Marlene Kuntz, Impressioni di settembre (cover della canzone originale della PFM)
Commenti
Ma non ci hai detto niente della cravatta: argentata? regimental? rosso bordeaux? è fondamentale, cazzo!
Settembre è il mese della rinascita.
https://www.youtube.com/watch?v=fCDBrC_gwuc
È vero, settembre ha una magia particolare: per molti è solo la triste fine dell'estate, in realtà questo mese nasconde un'atmosfera particolare, fatta di sfumature a volte impercettibili, che, però, sono preziosissime.
Grazie per il commento e per la canzone ;).