Torno a casa e mandorle ovunque - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco
Torno a casa e mandorle
ovunque.
Una giornata devastante,
coi ragazzi che a tutto hanno pensato meno che alla matematica, una
di quelle giornate in cui la primavera è ormai piena primavera e
spostarsi da un capo all'altro della città,
macchina-treno-metro-treno e poi ancora macchina diventa peggio
dell'esodo o della via crucis. Insomma, i ragazzi che mi assaltano
con piccole uova di cioccolato pur di non ascoltare gli esercizi che
detto per le vacanze, il sole già brucia, la camicia sembra un
cappotto di lana e la barba che non c'è fa calore comunque. E quel
che aumenta l'afa è che in giro ci sono tutti, ma proprio tutti –
come se all'una di mercoledì fosse normale che nessuno è a lavoro.
Si apre un buco
ancestrale nello stomaco, appena scendo dal treno e salgo in macchina
la avviso, Amore, butta giù la pasta, ma due etti solo per me, ché
ho una fame che non ti dico. E, quando entro in casa, quando chiudo
il portone alle mie spalle e la temperatura si abbassa diventando di
un piacevole clima casalingo e io mi aspetto solo di sentire odore di
pomodoro e basilico freschi, ecco, quando entro in casa trovo
l'apocalisse della pasticceria e nemmeno un grammo di pasta fumante.
Lo capisce subito di
essere in difetto, lo sa che sta attentando alla mia vita, e si
giustifica: non dire nulla, sto lavorando, ho ancora un mucchio di
cose da fare.
Sì, ma la mia pasta?
La nostra
pasta. Anche io ho fame, ma per le sei devo consegnare tutte e dodici
le colombe che vedi.
Non
ci voglio credere. Sul serio ti hanno ordinato dodici colombe?
Sì,
ho iniziato a prepararle ieri e lo sapevi. Solo che lo hai
dimenticato. Anzi, dice, preparando un miscuglio improbabile di
mandorle frullate, zucchero e uova, Anzi, se prepari tu il
sugo, se mi aiuti, mangiamo prima.
Ma io
non so preparare il sugo buono come lo prepari tu.
Alza
la testa a guardarmi. Muta. Ha farina sulla faccia. L'intero nostro
tavolo è coperto da dodici forme di carta piene di strabordante
impasto di futura colomba. Questo è il suo lavoro. Ha studiato
tutt'altro e si è messa a fare dolci su commissione, trasformando la
nostra cucina in un laboratorio con tanto di certificato appeso su
norme igieniche e quant'altro.
Questo
è il suo lavoro. Lontana da tutti, dal mondo, da quei pericolosi
contatti umani così imprevedibili da compromettere i suoi schemi e
le sue abitudini. Una laurea in Lettere a pieni voti e qualche anno a
fare la redattrice per il magazine di una casa editrice e poi ha
mollato tutto. Lei è così. Vai a capire se anche questo è frutto
della sua sindrome. Ma pare che chi è come lei abbia un concetto di
purezza e integrità morale sovrumane.
La
cucina – mi ha detto una volta – mi dà subito soddisfazione. E
mi fa sentire utile.
Il
lavello è pieno degli scarti della lotta pasquale con le colombe,
gusci d'uova come se piovessero, pelle di mandorle, il frullatore con
i resti di improbabili esperimenti chimici.
Se
aspetti che spalmo la glassa, mi dice, poi preparo il sugo.
Va
bene. Apro il frigo, infilo in bocca una fragola, lei mi dice Guarda
che non è lavata, la inghiotto intera, nascondo un brivido, faccio
spallucce.
Posso
pulire il lavello, buttare le uova? Sì, ma stammi lontano, mi sgrida
e vuol dire che non posso urtarla nemmeno con lo spostamento d'aria o
rischia di far cadere la sua granella di zucchero come non deve
cadere.
Chi
ti ha chiesto tutte queste colombe? È follia! Ha un esercito di
figli, nuore, nipoti, prozie?
La
signora ha deciso di regalarle.
Ah!,
commento, e poi magari dice che le ha preparate lei!
Non
credo proprio, dato che mi ha chiesto di confezionarle e dato che io
le confezionerò con i miei adesivi. E poi le regala a qualche
associazione, fa beneficenza, che ti importa di quello che potrebbe
dire?
Ti
fai pagare bene almeno?
La
smetti con queste domande? Non mi devi innervosire o i dolci mi
vengono male.
Si
rimette al lavoro col muso lungo e le mani che le tremano.
Dai,
stai calma, le mie erano solo battute.
Non
mi risponde. Il punto non è la colomba o quanto se la faccia pagare.
Il punto è l'e-mail arrivata ieri, quella in cui la casa editrice
per cui lei lavorava si fa avanti, si inginocchia quasi, la rivuole
indietro, come faceva la redattrice lei nessuno la sa fare, come
scriveva lei nessuno sa scrivere, quanto era profonda lei nessuno lo
sa essere – e poi le alzano la paga, eccetera eccetera.
Amore,
le dico, amore lo so che sei impegnata con i tuoi volatili
sovrappeso, ma dovremmo parlare di quella cosa. Sai, visto che
andiamo incontro alle spese per il matrimonio, insomma, qualche
soldino in più servirebbe. Non dico che devi lasciare questa cosa
dei dolci su ordinazione, ma fare entrambe le cose. Non pensi?
Tira
su la testa di scatto e lancia nel lavandino il pennello con cui
stava lavorando la glassa.
Perché
me lo chiedi? Sai che odio quel lavoro. Sai che non è poi così
remunerativo. Sai che devo passare il mio tempo a partecipare a
eventi di dubbio gusto, a trattare da “intellettuali” persone che
vendono l'aria o che venderebbero la madre per uno spicciolo in più.
Sai che odio quel mondo, con tutti quei narcisi, scrittori, registi,
scrittori e registi di cosa? Pare che la vita vera non l'abbiano mai
vista. Prendono il titolo che hanno, se lo appiccicano addosso e
possono vivere tutta la vita così, sai, con l'etichetta “scrittore”
e “regista” in fronte, e parlare solo di quello, parlare del
nulla e del vuoto e non sapere nemmeno cosa ci sia oltre il loro
piccolo mondo. Dovrebbero avere uno sguardo più distaccato sulle
cose e invece. E invece non lo so. Si sentono superiori. E si sentono
dei. Ma che schifo è? Questa colomba, questa colomba... Un bambino
sfortunato magari mangerà la mia colomba, un vecchio barbone
disperato o anche solo la figlia di chi me le ha ordinate. E avrò
fatto del bene, almeno.
Respira,
controlla la temperatura del forno, trattiene il fiato, guarda le sue
colombe da ogni angolazione. Io, come al solito di fronte ai suoi
discorsi tanto profondi quanto confusionari, ammutolisco.
E
poi, mi dice. E poi dove li metto i miei bambini? Per celebrare un
analfabeta dovrei rinunciare ai miei bambini?
I
suoi bambini sono bambini con problemi veri. Non come i miei, mi dice
sempre, i miei non sono problemi, io ho dei problemi, ma in fondo
faccio una vita normale – mi dice sempre.
I
suoi bambini sono quelli che ti rendono indigeribile il mondo o che
ti fanno imprecare contro dio o la natura, quelli che ti fanno
davvero domandare perché la vita sia così, perché la vita vada
così, alle volte. Lei lo sa che i suoi bambini hanno problemi seri e
gravi, ma non pensa che siano bambini diversi. Una volta me lo ha
detto. Quei bambini ti tolgono dagli occhi strati e strati di
incoscienza e ti rendono la realtà aggressiva come non mai. Di
fronte a loro ti senti senza pelle, mi ha detto: e chi lo sa loro
cosa devono sentire, forse si sentono proprio come me. Senza pelle.
Quando
torna a casa dopo averli aiutati un po', dopo aver fatto mettere loro
le mani nella pasta lievita, dopo averli fatti giocare col pane o la
pizza – lei è tutta un'altra cosa.
Una
volta l'ho vista lavorare coi suoi bambini. Lei che non tocca e non
si fa toccare. Lei li abbraccia, li stringe a sé, poi fa scivolare
le sue mani sulle loro braccine ossute e arriva alle loro piccole
mani. Gioca con le dita rattrappite, gliele apre, tenta di
distenderle e, quando le ha distese, lei gliele fa affondare
nell'acqua-farina-lievitodibirra e inizia a impastare. I bambini
prima si dimenano, poi quando capiscono che quel miscuglio di
acquafarinalievito si amalgama e diventa liscio stanno lì,
ore e ore – e si fanno lievitare la pasta tra le mani pur di
continuare con quella goduria spumosa.
E
lei, dolce scintilla, se ne sta lì a rivestirli, quei bambini, a dar
loro un po' di pelle e a farmi sentire più vivo e più presente –
in questo mondo.
Allora?
Dovrei rinunciare ai miei bambini?
Inforna
le colombe due alla volta. Nel pentolino sul fuoco bolle passata di
pomodoro fatta in casa, l'estate scorsa, con i pomodori raccolti
direttamente a mano da noi, in campagna, nella terra dei miei
genitori. Cipolla e basilico si confondono, acido e dolce, lei fa
scivolare dalla mano alla bilancia un fascio liscio di spaghetti. Nel
naso un misto di terra, estate, foglie, sole, sudore, doccia e sonno
nel silenzio, abbracciati, coi vestiti di cotone puliti e l'ombra
sulla finestra. Lei grattugia il parmigiano e nel naso c'è odore di
sera con le candele alla citronella accese, nel patio, a casa dei
miei. Nel naso, il gelsomino che riempie l'aria e arriva nei nostri
piatti ricolmi di spaghetti al pomodoro rosso-gola e foglie di
basilico di uno smagliante verde-riposo. Nel naso, il tavolo di legno
che sa di umidità e anni passati all'aperto, sole, pioggia, neve e
nebbia color mogano – e il dopo cena sono coppe di frutta
variopinte, tavolozza confusa affogata nella panna montata. Nel naso,
l'odore dei suoi capelli, l'odore dello shampoo, odore di pelle alla
pesca, ancora odore di sonno. Lei muove le mani contro una candela e
produce ombre disarticolate sul muro. Penso ai suoi bambini, alle
mani dei suoi bambini, al pane e alla pizza fatti in casa, al sugo di
pomodoro della terra dei miei genitori, al profumo di pesca, estate e
sonno che ha la sua pelle, penso all'odore rosso e verde che hanno
certi miei momenti di vita e dico:
Non
rinunciare mai ai tuoi bambini.
Dodici
colombe cotte invadono di zucchero la nostra casa. Mi sdraio sul
divano, guardo il soffitto, mi rilasso, sento rumore di carta
plasticata e nastri, spillatrice e adesivi. Chiudo gli occhi, sto per
addormentarmi. No. Non mi addormento. Lei si butta di peso su di me e
un altro po' mi fa tornare in bocca i tanto agognati spaghetti. Il
suo faccione sorridente ride per me dall'alto, proprio sugli occhi,
piccola scintilla zuccherosa.
Ho
finito, dice agitando e intrecciando le gambe in aria e puntellandosi
con i gomiti sul mio petto.
Allora?,
mi sorride sulla bocca e gioca con il mio mento liscio e candido.
Allora?
Va bene così?
Sorride.
Se
vadano bene così la casa piena di zucchero o la signora che pagherà
dodici colombe, se vada bene così che ti lasci alle spalle per
sempre il tuo vecchio lavoro, se vadano bene così i bambini e la
pasta lievitata, se vadano bene così il sugo di pomodoro fresco e i
tuoi gomiti puntellati sulle mie costole, non lo so – non so a che
ti riferisci.
Ma ti
dico che sì, proprio così, esattamente così, mi va bene – essere
il tuo uno di noi due.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Coppia di amanti sdraiati, 1904-1905 - particolare
Soundtrack: Silence
Commenti
Scritto benissimo. Grazie.