Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?
Un giorno, all'aprirsi
dei boccioli d'albicocco.
Un giorno come un altro,
eppure diverso. Un giorno. Dal medico. Dal suo medico. Ci sono anche
io. Seduto su una poltrona accanto a lei, di fronte al luminare della
mente umana, come se fosse possibile capire la mente umana. Mi
strofino il mento, evitando di guardare il medico in faccia. Mi
strofino il mento, la barba mi punzecchia le dita, oggi non l'ho
tagliata, l'ho solo scorciata. È un giorno come un altro dal medico,
ma è anche un giorno diverso. Perché lei ha deciso di non venir più
qui e il medico ancora non lo sa. Avrebbe potuto alzare il telefono,
dire al dottore Non vengo più e finirla così. Ma il terrore per il
telefono e per le telefonate – e l'attesa e l'inaspettato e il
possibile che c'è dall'altra parte della cornetta – è l'ennesima
faccia della sua sindrome. Così, eccoci qua. Lei accavalla le gambe
e gli stivali scamosciati che le coprono il ginocchio sono un
sintomo dell'in verno da cui fatichiamo a staccarci – anche se il
vestito leggero che lei indossa è un modo per dire che fa più
caldo, sì, i boccioli sono quasi pronti e il sole è timido, ma più vicino.
Il medico parla senza
sosta, io non lo ascolto, guardo la porta dello studio, lei non lo
ascolta, si guarda le mani. Poi, d'improvviso, accortosi di essere
senza pubblico, il medico mi interpella – vedo che anche tu eviti
di guardarmi negli occhi, eh?
Mi giro a guardarlo,
voleva fare una battuta, ma la battuta gli riesce male, tanto male
che neppure la si può chiamare battuta. Lei alza la testa e lo fissa
negli occhi fulminandolo. Lei ti guarda negli occhi solo se ti deve
fulminare – e ci riesce. Il medico deglutisce, infila l'indice tra
il colletto della camicia e il pomo d'Adamo. Lei scuote appena la
testa, il medico se la gratta, la testa.
Va bene, dice. Parliamo
un po' degli ultimi tempi. La crisi che hai avuto il mese scorso. Era
molto che non ne avevi una, giusto? Vogliamo parlarne?
Io continuo a strofinarmi la barba ispida e ben scorciata, lei, invece, si alza. Quando è
chiamata in causa comincia il balletto dei tic o delle azioni
ripetute che, da queste parti, tra luminari, studi e lauree in psico
o neuro qualcosa, chiamano con una di quelle parole inglesi che hanno
pure una traduzione italiana – ma quanto fa figo e quanto fa medico
pronunciarle in inglese. Un difetto con un'etichetta inglese. Che
sembra l'ultimo spot delle scarpe da ginnastica americane alla moda.
Insomma. Lei comincia a camminare avanti e indietro, davanti a me,
lentamente. Fa tre passi, poi sbatte un tallone contro l'altro, si
mette sulle punte e ruota di centottanta gradi. Altri tre passi,
tallone, punte, centottanta gradi. Guarda in basso i suoi stivali
scamosciati alti sino al ginocchio, io guardo lei che oggi ha
indossato quest'abito aderente e ha due fianchi che solo io so – e,
pur trovandomi dal medico, sto pensando cose da camera da letto che
forse ora non dovrei pensare, ma le uniche ad avere un senso
reale. Ora, dopo, ieri, domani e sempre.
Il medico ripete: allora,
vogliamo parlarne?
Dopo altri due giri di
tre passi, tallone, punta, centottanta gradi, lei scandisce Non
sopporto la gente che mi giudica.
E poi? Fa lui.
E poi non sopporto che
abbiano sempre qualcosa da dire, su di me o su altro, quando invece
l'unico commento sensato a tutto è il silenzio.
Se l'è preparato. Ha
preparato questo dialogo come un attore navigato. Ha pensato alla
scena mille e mille volte e ora recita da oscar e il dottore dovrebbe
solo applaudire.
Tra poco ti sposi –
dice il medico, poi guarda me – tra poco vi sposate. Non hai paura
del matrimonio? Non intendo matrimonio in senso astratto e generale,
intendo matrimonio come... ecco il giorno della cerimonia e poi il
ricevimento e tutta la gente che sarà lì per te, per voi, e tu al
centro dell'attenzione per ore e ore. Dovrai parlare, abbracciare,
baciare chiunque, tutti. Capisci che voglio dire?
Lei si blocca di fronte
alle tende bianche della finestra. Inspira. Guarda lontano, i
palazzi, il cielo o forse un po' oltre.
Io sposo lui. Dice. E sa
una cosa, dottore? Voglio che ci sia tanta gente, tantissima gente,
perché devo far vedere a tutti quanto sono sicura di questa cosa, di
sposarlo, e devo far capire a tutti quanto siamo belli e quanto siamo
diversi. Sa una cosa dottore? – sposta leggermente la testa verso
destra, io vedo solo la sua meravigliosa nuca, ma so che sta
spostando anche lo sguardo verso destra e che sta inseguendo il volo
di un uccello verso chi sa dove – Sa una cosa, dottore? Appena
diciamo Abbiamo un annuncio da fare, tutti si aspettano che tiriamo
fuori la storia di un bambino. Insomma, che sono incinta. Lo hanno
pensato i nostri genitori e anche i nostri amici. Sa perché,
dottore? - una signora esce sul balcone e sbatte violentemente uno
straccio sulla ringhiera – Sa perché si aspettano un bambino?
Perché hanno una mente troppo lineare. Insomma. Noi due viviamo insieme e
l'unica cosa nuova che possiamo fare è un bambino? Non pensano che,
magari, abbiamo solo voglia di celebrarci? Di autocelebrarci? Di fare
qualcosa di bello per noi, noi soltanto, di godere di noi stessi nei
modi più vari? Poi, forse, se vorremo, metteremo al mondo un bambino. Se
ci sarà un momento in cui diremo: ora godiamo di noi stessi con un
bambino, allora faremo un bambino. Per ora, ci faremo belli e andremo
in un posto altrettanto bello a scambiarci gli anelli e a
festeggiarci. Le sembra tanto strano, dottore? - si volta verso di
lui, lo guarda in faccia, dritto negli occhi, fuori il mondo fa
alzare un vento frizzante e caldo, inverno che va via, primavera che
arriva – dottore, le sembra strano? Tutti non fate altro che dirmi
che seguo sempre degli schemi, che la mia mente è così, eppure a me
sembra che siano gli altri a seguire degli schemi. Hanno uno schema
di vita così uguale e banale.
Il dottore si schiarisce
la voce e lei ricomincia a camminare avanti e indietro.
Quando lei parla ci
lascia sempre un po' tutti sconcertati. Non è facile seguirla, ha
dei ragionamenti articolati, fin troppo profondi, arriva giù giù
giù e un cervello umano tipico fa fatica a starle dietro. Così, il
medico non può che dire la cosa più banale e arrogante ad un
tempo: dimmi, allora, cosa differenzia te e lui da un'altra coppia
che convive e che decide di sposarsi.
Lei rompe lo schema. Al
terzo passo non torna indietro, ma arriva fino alla finestra. Si
affaccia, guarda giù, solo lei sa cosa ci sia di tanto bello da
farla tacere per più di cinque minuti.
Si tira su e lo dice
all'aria: vede, dottore. Io lo faccio perché mi piace e perché è
bello, non perché è arrivato il momento. Si volta verso di me e
poggia il sedere al davanzale della finestra. Guarda me, stavolta.
Vede dottore, tutti fanno qualcosa perché dicono “è arrivato il
momento” oppure “è il momento giusto”. Si va via di casa
perché è arrivato il momento, ci si sposa perché è arrivato il
momento, si fa un figlio perché è arrivato il momento. Così, dopo
che fai tutte queste cose solo perché è arrivato il momento, non hai più momenti che arrivano e te ne stai lì a vivere annoiato.
E poi vai fuori di testa. Perché hai passato la vita al ritmo dei momenti altrui.
Respira a fondo. Poi dice: se ha capito, bene. Se non ha capito non aggiungo altro, dottore. Sono stufa di spiegare.
Respira a fondo. Poi dice: se ha capito, bene. Se non ha capito non aggiungo altro, dottore. Sono stufa di spiegare.
Lui si schiarisce
nuovamente la voce. Lei accarezza le tende bianche. Vedi – dice lui
– vedi. Nel punto dello spettro in cui tu ti trovi... e lei non lo
fa finire. Quando il medico pronuncia la parola spettro, lei si
abbassa sotto le tende, alza le braccia, si tira su e diventa un
fantasmino. Comincia a oscillare qua e là. Dice: sono lo
spettrooooo. Sono lo spettroooo. E sono venuto per
terrorizzarviiiiii. Mi scappa un sorriso. Metto la mano davanti alla
bocca e agli occhi. Tolgo gli occhiali, mi strofino le palpebre e
rido, rido, rido. Nell'abbassarsi, il vestito le è andato un po' su,
scoprendo qualche centimetro di coscia. Sì, sta arrivando la
primavera.
Il medico si
spazientisce. Cambia posizione, bruscamente dice: va bene. Parliamo
di altro. Vorrei parlare del tuo lavoro o del tuo presunto lavoro. Di
come aiuti il tuo compagno economicamente. Forse è il caso di uscire
un po' dal guscio, di andare a lavorare con gli altri, di non
lavorare più da casa e da sola.
So bene perché il medico
stia prendendo questo discorso. Vuole metterla in difficoltà. Ha
comandato lei fino ad ora e adesso lui deve ribadire di essere uno
psico o neuro qualcosa che ne sa più di noi che, invece, con la
diversità viviamo ogni istante – e non soltanto un'ora al prezzo
di un orologio d'oro. Lui sa che il lavoro è la spina nel fianco, sa
delle enormi difficoltà con cui lei tenta di destreggiarsi nel mondo
freddo e perverso degli adulti. Il medico continua: sei laureata a
pieni voti, perché non sfrutti la laurea che hai invece di fare
quello che fai?
Lei riceve il colpo, ma
lo attutisce. O comunque non dà a vedere di aver ricevuto colpi.
Io voglio solo essere
utile. Risponde guardandomi. Le faccio un segno con la testa. Lei mi
risponde di sì.
E comunque, dice,
guardando il dottore poco sopra la spalla, e comunque non verrò più.
Apre la borsetta, apre il portafogli, tira fuori qualche banconota,
la lascia sulla scrivania. Infila la giacca, strappa con violenza la
ricevuta dalla mano del dottore. Usciamo.
Siamo al decimo piano di
un palazzo in centro. Aspettiamo l'ascensore. Ce ne stiamo un po' in
silenzio perché a volte, come dice lei, l'unico commento sensato
alle cose è proprio il silenzio. Non so cosa stia pensando, ma io
sto pensando alla seduta e a tutte le parole dette. Poi dice: sai, ho
il terrore di prenotare l'appuntamento in atelier per l'abito da
sposa. Dice. Sai, per via del telefono. Il telefono mi terrorizza, lo
sai, e tutto quanto. L'accarezzo. Però, dice e mi guarda, però non
vedo l'ora di telefonare! Sorride. L'ascensore arriva.
Entrando, mi fa:
compriamo pesce per stasera? Ti va una zuppa di crostacei e calamari?
Falanghina o Greco di
Tufo? - aggiungo io.
Quello che costa di più,
ammicca lei.
L'ascensore si chiude.
Arriva profumo di primavera calda e sbarazzina, quella che ancora non
è satura di pollini ma solo di fiori in boccio. Mi avvicino a lei e
la bacio e lei mi abbraccia e mi stringe e finalmente posso
accarezzare quei fianchi che, per tutta la seduta, sono stati la mia
unica preoccupazione.
È un giorno d'inizio
primavera. Le sue labbra si schiudono come un bocciolo d'albicocco.
Le mie ne assaporano il frutto. Uno, uno soltanto.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Studio per gli amanti nel Fregio di Beethoven, 1902 - particolare
Soundtrack: Silence
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