Allora, Prof, come continua? - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu
Allora, Prof, come
continua?
Eccomi qua. Davanti alla
lavagna. Il braccio alzato, il pennarello in mano, la cravattina che
mi stringe la gola e una mano in tasca a ostentare una sicurezza che
oggi proprio non ho.
Sulla lavagna ho scritto
e uguale emme ci al quadrato.
Fisso Einstein attraverso
le lenti degli occhiali. Rimango ancora un po' col braccio alzato e
la mano in tasca. Poi la sfilo, la passo tra i capelli e tra la
barba, che già dopo mezza giornata e la sbarbata della domenica
pomeriggio sta ricrescendo.
Prof, quindi?
Mi volto verso la classe.
E poi di nuovo verso la lavagna.
Ma io non insegno
matematica e scienze alle medie? Sì. E come sono finito a scrivere
eugualeemmecialquadrato? Dove sono stato negli ultimi venti
minuti? La teoria della relatività mi sembra un po' eccessiva. Anche
per i ragazzini che dimostrano già a dodici anni un'intelligenza
fuori del comune. Abbasso il pennarello, lo tappo. Be', dico. Forse
non è il caso di fare cose troppo difficili oggi. Mi siedo, poggio i
gomiti sulla cattedra, infilo le mani sotto gli occhiali, schiaccio
le pupille e strofino le palpebre. Ho le occhiaie per terra. Va bene,
faccio, non interrogo ma ora viene qualcuno a fare esercizi
sull'ultimo argomento svolto – che proprio non ricordo. Sto
confondendo gli argomenti di prima con quelli di terza media e il
programma di seconda è svanito nella lunga e atroce nottata
trascorsa a calmarla. E a
calmare mio suocero e mio cognato. Poggio la mano destra sullo zigomo
destro per fissare gli esercizi impeccabili e scorrevoli della più
brava della classe – e improvvisamente sento dolore.
Mi
ricordo. Mi ricordo che sento dolore perché ho ricevuto la sveglia
in faccia a tutta velocità, alle due e mezza di stanotte. All'alba
mi sono chiuso in bagno per cercare di coprire il livido e
l'escoriazione con il suo fondotinta.
In realtà lei non usa il fondotinta, solo una crema idratante
colorata che uniforma il colorito concesso da madre natura, ma che
non ti colora sul serio. Così, un po' la crema colorata, un po' la
barba in ricrescita, un po' il bordo della montatura nera che copre
parte dell'escoriazione, sembra quasi un effetto della luce e
dell'ombra questa macchia viola che mi ritrovo sotto l'occhio.
Sorrido.
La teoria della relatività. Ridicolo. Tra ieri sera, stanotte e
stamattina ho vissuto qualcosa come tre o quattro vite e rischio
seriamente di finire sul baratro. Come lei.
Prima
vita. Cena tra amici. Le avevo detto: sei sicura di volerci andare? È
domenica sera, domani ci alziamo presto, insomma. Ma lei ha detto di
sì. Anzi. Si è vestita bene, truccata bene, le girava bene, ha
chiacchierato tutta la sera, ha sorriso tutta la sera. Ha bevuto un
bel bicchiere di vino rosso. Si è seduta sulle mie ginocchia,
abbiamo detto anche agli amici che ci sposiamo, tutti si sono
avvicinati facendoci ressa per congratularsi. Lei si è alzata, è
andata in bagno per evitare l'affollamento, quando è tornata si è
infilata in un gruppetto di amiche, altro bicchiere di vino rosso in
mano e sguardo spento. È stato lì che qualcosa si è incrinato.
Seconda vita. Mezzanotte. In macchina, mentre torniamo a casa, si
addormenta. Si sveglia, si lamenta perché vorrebbe già starsene a
letto, odia l'idea di spogliarsi, struccarsi, lavarsi i denti,
preparare le tazze per la colazione, impostare la sveglia eccetera
eccetera. Guarda fuori del finestrino e quando provo a farle qualche
domanda sulla serata glissa pericolosamente. Mi dice solo,
rispondendo al finestrino: hai fumato? No, per niente. Strano, dice
al vetro, puzzi di fumo. Mi schiarisco la voce – sono uscito sul
terrazzo con gli altri, hanno acceso qualche sigaretta, per questo so
di fumo. Non sai di
fumo, ribatte, puzzi di
fumo. La sua voce è atona, le sue frasi non sono né una
constatazione, né un'accusa, né voglia di litigare, né altro.
Assurdi,
tutti quanti – dice al vetro, ma forse stavolta parla con la
striscia impazzita al lato della carreggiata – fanno tanto i bravi
genitori e poi fumano. Fanno le brave mamme e poi lasciano i figli a
casa con i nonni per venire a recitare la parte delle quindicenni una
domenica sera.
Tira
su col naso.
Poi
quando mi parlano fanno tutte le brave trentenni.
Lo
sussurra guardando il vetro, pensando alla striscia impazzita della
carreggiata e ticchettando nervosamente sul bottone del freno a mano.
Amore,
ti hanno detto qualcosa, è successo qualcosa, per caso?
Chiude
gli occhi. Si appisola di nuovo.
Avrei
poi scambiato volentieri le prime due vite e quelle successive con la
terza. Non so che le prenda ma, quando mi sfilo la cinta dei
pantaloni, mi salta addosso. È l'una e mezza, lei urla affogando la
bocca nel cuscino e le lenzuola agitate, per un attimo, ci fanno
dimenticare di essere noi, noi due. Siamo solo uno. Si addormenta.
Ignaro,
credo ancora di vivere la terza e ultima vita della serata e non so
di essere già nella quarta. A piedi nudi e in mutande apparecchio la
tavola per la colazione. Domani ho la prima ora, ma chi se ne frega.
Mi stiracchio, sono quasi le due, va bene così, se per una volta
vado a scuola assonnato che mai succederà? Chiamo qualcuno a fare
esercizi alla lavagna, durante l'ora di buco un caffè e poi si
vedrà. Infilo nella lavatrice i vestiti che indossavo a cena, lei ha
sentito bene, puzzo di fumo e non perché sia stato a chiacchierare
con quattro fumatori. Ho ceduto alle lusinghe dell'unica sigaretta
dopo quasi due anni senza. Credevo di aver smesso, invece era
astinenza. Scusami, amore, non accadrà più. Che ti dica una bugia.
Me ne
torno a letto e lei se ne sta lì, una cascata di capelli nell'ombra,
il lenzuolo che le sfiora appena le forme e fuori l'inverno. La
stringo di getto, un po' come fanno i maschi con le femmine, non come
farebbe un uomo con la sua donna. In più, la stringo come fa un
maschio che dimentica di avere una donna con quella maledetta
sindrome. Si dimena subito.
Levati.
Ti
sto solo abbracciando. Sei un bugiardo, mi dice e mi respinge. Ma io
continuo ad abbracciarla. Sai quanto mi danno fastidio. Dice. Le
bugie. Le sigarette. E tutte le persone false che abbiamo visto a
cena.
Non
so se chiederle scusa o se chiederle cosa le sia successo. Ma
continuo a stringerla.
Sei
uno stupido, come tutti gli altri.
Sei
il più stupido, perché sai come sono e te ne dimentichi.
Qualche
volta dovrò pur rilassarmi, le dico. Comincio a incazzarmi, sono
buono, troppo buono, ma sono sempre un uomo. Di solito si litiga e
poi si fa l'amore, invece, ora, proprio nel momento in cui dovrei
distendermi e farle le coccole, mi aggredisce.
Forse
è il caso che te ne vai a dormire sul divano. Mi dice. Mi dà
fastidio la presenza fisica di un altro
anche a un metro di distanza.
La presenza fisica di
un altro è troppo. Non sono un
altro, sono il tuo uomo, il tuo quasi marito, non sono un altro. Lo
so che a parlare non è la lei che amo, so che a parlare è l'altra,
il terzo incomodo.
Mi
inginocchio in fondo al letto, le dico io non vado a dormire sul
divano, dormo qui, con te, fastidio o meno. Non mi lascia finire.
Inizia a scorrere un fiume dalla sua bocca, è in piena, mi colpisce
ovunque, violento, ma quale fiume, quale piena, un maremoto, direi.
TU mi
dici le bugie e va bene è solo una sigaretta, ma io sono qua da sola
a sopportare tutto il giorno me, me stessa, mi combatto, mi prendo a
pugni, mi isolo, mi sforzo di essere quella che non sono – e tu
fumi una sigaretta e non me lo dici? Sapete solo dirmi che sono una
stupida handicappata tu e la tua maledetta sigaretta, le mie amiche,
amiche, amiche? che amiche?, quelle, un mucchio di stronze, amiche
solo perché sono le mogli dei tuoi stupidi amici, io non me ne
faccio nulla di un'amica così, una che ti dice perché vi sposate,
fate un figlio no?, avete trent'anni, che aspettate? e ti guardano
tutti dall'alto in basso perché loro i figli già ce li hanno e se
non li fai anche tu non stai al passo con i tempi o con la loro
stupida moda. Che status symbol ostenti se a trent'anni non hai un
figlio? Poi ti guardano e lo so che pensano, hai paura che i figli
vengano come te, sì, sei intelligente, forse lo sei più degli
altri, ma santo dio che vita che fai, quanto sei strana, lo so che lo
pensano, che sono talmente strana da non aver diritto ad una vita
normale. E ti guardano e tutto quello che fai, per loro, lo stai
facendo male, come quando i bambini imitano gli adulti, e invece non
sanno, non sanno, non sanno nulla di me. Non. Sanno. Non so come
abbia fatto a non dir loro quello che pensavo, che le odiavo, che le
odio che odio tutti
Sulle
ultime tre parole alza la voce e urla e inizia a sbattere la testa
sul cuscino e quando lancia il cuscino ormai le sue urla sono suoni
inarticolati che svegliano l'intero quartiere e i rumori di
sottofondo che sentite sono gli oggetti del comodino che volano e si
frantumano. Ho perso il controllo della situazione. Faccio per
avvicinarmi ma tra le urla incontrollate riesce a scandire il suo
classico NON TOCCARMI e lancia la sveglia e la sveglia finisce sul
mio zigomo destro. Non sento dolore, perché è più forte il dolore
di vederla in piena crisi dopo un'assenza di dodici mesi e tre
giorni. Credevo avesse smesso, invece era solo astinenza. Non è
pazza, non è irrazionale. Anzi. Questo è il momento di massima
razionalità per lei. Accumula ed esplode, una bomba acca farebbe
meno danni. È il momento in cui non ha bisogno di tic, rituali e
maschere per nascondere la sua vera natura. È il momento in cui ti
dice come stanno le cose. È il momento in cui capisci quanta
sensibilità, quante emozioni, quanti pensieri, quanta vita può
provare più di me e più di tutti noi messi assieme. Quando fa così,
è anche il momento di farle capire che ci sono. L'ultima volta,
dodici mesi e tre giorni fa, l'ho fatto. E anche ora. Mi getto su di
lei e la stringo, l'abbraccio e ancora la proteggo e il suo non
toccarmi in breve diventa un aiutami disperato e sudato. Piagnucola,
chiede scusa, si lamenta, piagnucola, si copre il viso con i capelli,
respira – affannosa. Tra un'ora non ricorderà nulla del motivo che
l'ha fatta esplodere. Si sentirà solo stanca e distrutta, come se
fosse finita ko ad un incontro di boxe dopo un'infinità di riprese.
Io, invece, tra un'ora sarò distrutto e ricorderò tutto. Ma avrò
imparato qualcosa. Ai miei ragazzi lo dico sempre. Come fate a
dimenticare subito quello che vi insegno? E io non sono tanto
diverso. Noi normali non siamo tanto diversi. Siamo troppo normali e
dovremmo essere un po' più diversi, ogni tanto. Dimentichiamo subito
di vivere. Dimentichiamo subito la fragilità di certe cose.
Nello
stato in cui siamo devo vedermela anche con mio suocero e mio
cognato, avvisati dal vicino, svegliato dalle urla. Mi vede mezzo
nudo, sente lei piagnucolare seminuda nel letto, cosa deve pensare lo
so bene, mi batte la mano sul petto mentre mi dice Ragazzino togliti
quest'aria da saccentello, ragazzino ricordati sempre che hai mia
figlia. Mio cognato fa spallucce, scuote la testa, stai tranquillo,
non lo pensa per davvero.
Sono
le quattro quando mi metto a letto, lei su un fianco mi dà le spalle
e dorme profondamente. Sta rimettendo insieme i pezzi.
La
sveglia fracassata alle sei non suona, ma mi sveglio perché lei non
è nel letto. Seguo un odore che mi riconcilia col mondo. Sul tavolo,
tra le tazze della colazione, trovo una ciambella al cioccolato.
Accanto, un origami a forma di fiore. Lei è sotto la doccia. Guardo
la sua sagoma perfetta attraverso i vetri smerigliati. Sul lavandino,
un tubetto di crema idratante colorata.
L'alunna
più brava della classe, al decimo esercizio perfetto e col braccio
dolorante, se ne torna a posto. Un ragazzino, il più discolo, alza
la mano e sto per dirgli Per andare in bagno aspetta la campanella.
Ma lui mi precede: allora, Prof, come continua quella formula?
Einstein?
La teoria della relatività?
Come
continua? Come continua.
Io e
Lei siamo due persone, distinte, diverse. Ci amiamo. A volte
inconciliabili, rimaniamo Due, ognuno al proprio posto. Poi, a volte
siamo due nel senso di Uno più Uno, ci diamo la mano, facciamo le
cose assieme, ridiamo assieme, mangiamo assieme, dormiamo assieme.
Poi, ancora, a volte, siamo Uno. Io ho un pezzo di lei, lei un pezzo
di me, e non riusciamo a distinguerci, non riusciamo a distinguere
dove inizi Uno e finisca Due – e viceversa. Potreste pensare che
dopo una notte del genere siamo due, due persone distinte,
inconciliabili, ognuna nella propria piazza del letto. E, invece, mai
come ora mi sento Uno. Lei che sfonda la mia normalità, che mi entra
dentro, mi fa male, si sente in colpa, mi prepara una torta, un
fiore, lei che un po' è il mio profumo, la mia essenza. E io che so.
Io che so di lei.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Lovers, 1913
Soundtrack: Dario Marianelli, Dance with me, (Anna Karenina, Original Music From the Motion Picture)
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