Non so quando torno
Per
diecimilanovecentocinquanta giorni il mondo non si è ricordato di me
e oggi ha deciso di farlo.
Lei mi ha lasciato il
latte caldo sul tavolo e una zuppa di patate e carote sui fornelli.
Un post-it attaccato alla pentola: non so quando torno. E poiché
quando significa anche se, poiché la frase suona stonata così,
all'alba del mio oltre decimillesimo giorno di vita, la cravatta
storta comincia a stringermi attorno alla gola. O forse è la gola
che preme contro la cravatta – e comunque è uno strozzarmi
continuo di pensieri. E di respiri malsani. E di palpebre che non
sbattono. E di occhi che si inaridiscono e provano a piangere.
Stamattina il mio letto è vuoto e le tovagliette da colazione anche.
È per ieri? È per ieri
sera? Perché io insistevo per un menu di pesce e tu per uno di
carne? O è perché le bomboniere che piacciono a te sono troppo
costose e io alle bomboniere rinuncerei volentieri? Sistemo il nodo
della cravatta, ora è dritto, ora posso uscire, anche se non ho
mandato giù la saliva neanche una volta e anche se le palpebre,
oggi, non vogliono sbattere.
O forse perché me ne sto
sempre un po' troppo zitto, a leggere, a pensare, a guardarti? Ma tu
lo sai, vero, lo sai, che non c'è bisogno di tante parole tra noi?
Metto a tracolla la borsa
col portatile e oggi può venir giù la neve, la grandine o spazzarmi
via la bora, ma vado a lavoro a piedi. Quindici chilometri – e
chissenefrega. Chissenefrega santodio. Chissenefrega del grande capo
e delle ore che dovrò recuperare. Quindici chilometri sono pure
pochi per assestare nel petto questo senso di solitudine che vuole
deflagrare – e se deflagrasse, be', ci sarebbero da ripulire troppo
sangue e troppi umori.
Allora è per quella
frase che ho detto l'altra sera, dai nostri amici? Quella frase a
doppio taglio? Io che non parlo mai, poi. La mattina mi ero guardato
allo specchio e avevo visto due o tre peli bianchi nel mare nero
della barba. Niente di che. Ma la sera, a cena dai nostri amici, due
nostri amici con due bambini, esce fuori il solito discorso. E voi
quando ne fate uno – di bambino?
Ed ecco la mia frase a
doppio taglio, eccola: un giorno forse. Ma se devo fare qualcosa di
importante con lei, be', prima voglio sposarla. Poi fare il viaggio
della nostra vita e poi cene al lume di candela e teatro e cinema e
mostre e passeggiate – solo con lei. Chissenefrega dei tre peli
bianchi tra la barba.
Forse hai frainteso? Io
non è che non voglio fare figli con te. Io voglio. Io, ecco.
Al terzo chilometro e
dieci litri di sudore, camicia inzuppata e capelli spettinati, mi
fermo sul ponte sul fiume. Le mani in tasca, puntello i piedi,
avanti, poi indietro, il portatile mi segue, oggi non pesa, oggi pesa
altro. Sono solo. Diecimilanovecentocinquanta giorni di vita, circa
quattromila con lei – e sono solo. Sì, sono ancora giovane. Ma,
gente, provate voi a vivere senza quei riccioli carbone e senza
quegli occhi ardesia che due sole orbite non riescono a contenere.
Guardo il fiume, ma il
fiume non mi risponde, il fiume continua impassibile, giro i tacchi.
Sulla panchina all'altro
capo del ponte. Sulla panchina, con la canottiera e i pantaloni
attillati da ginnastica. Sulla panchina, un asciugamano zuppo e le
cuffie nelle orecchie. I riccioli tirati su e l'ardesia stravolta
dalla fatica. Sulla panchina, fa un gesto. Alza la testa per bere
acqua da una boccetta e mi vede. Rimane incantata e ferma e con un
mezzo sorriso, come la prima volta che mi ha visto. Come la prima
volta che l'ho vista. Fa un cenno con la mano, mi saluta, mi dice di
avvicinarmi.
Che. Che ci fai qui. E
non metto il punto interrogativo.
Oggi sono libera. Non
ricordi?
Scuoto la testa o forse
no.
Mi sono alzata presto per
andare a correre. Altrimenti non entro nel vestito. Ma non torno a
casa, vado da mamma, faccio la doccia e poi andiamo insieme a fare la
prova dell'abito. Ah e poi dal fioraio. Siamo d'accordo sulle
orchidee, vero?
Sì, dico di sì.
E, allora, non so quando
torno significa non so a che ora torno. Solo che nell'abitudine
interrotta le solite parole diventano altro.
E tu – alza il mento e
i riccioli volano – e tu che ci fai qui a quest'ora?
Be', ecco. Volevo farmela
a piedi. Altrimenti non entro nel vestito – e rido, come un
coglione. Perché, se questa fosse una storia, dovrebbe intitolarsi
Il coglione.
Solo un coglione potrebbe
avere paura di essere mollato da una donna così. Solo un coglione
come me non capisce che una donna così vive il nostro sentimento
come i polmoni a contatto con l'aria – e non ci pensa proprio alle
abitudini interrotte.
Sei tutto sudato – mi
bacia. Sudore suo sul mio – amore, non so a che ora torno stasera.
Ma la cena è già pronta.
Be' – guardo
l'orologio. Sorrido, come un coglione. Faccio spallucce.
Per
diecimilanovecentocinquanta giorni di vita il mondo non si è
ricordato di me. Perché non si ricorda mai di nessuno. Scorre come
il fiume. Con i suoi accadimenti eterni, melmosi e fluttuanti – o
immobili. E poi noi ci alziamo e pensiamo a smuoverlo, il fiume, a
volte nel verso giusto, a volte nel verso sbagliato. A volte verso il
precipitare di una cascata.
Diosolosa il potere che
ha l'ardesia, un manto grigio interrotto da striature azzurre. E in
quelle striature, i menu, i discorsi, i peli bianchi, il fiume, il
mondo e diecimilanovecentocinquanta giorni di vita piena finiscono
risucchiati e sciacquati e digeriti.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Edvard Munch, Disperazione (1892) - particolare
Soundtrack: Coldrain, We're not alone
Commenti
Prosa anni'90, situazioni Volanti anni '00, storia: pura fantascienza!! :P
Carino, comunque.....Mi aspettavo più pennellate spesse e profonde da un'evisceratrice della tua portata.... (Si vede che averlo, come dono, pesa anche a te e quindi ai tuoi personaggi,a volte, no? ;)
Sarebbe un delitto se tu smettessi di scrivere! :) complimenti vivissimi!
@Kelvin. Ti ringrazio... Soprattutto per la frase che scrivi sul delitto :). Mi fa tanto piacere sentirtelo dire! Grazie!
E le "pennelate" cui facevo riferimento,parlavano di descrtittivita' nel lessico, non nel contenuto. Qualche dettaglio. Che desse tridimensionalita' ad una vignetta. :)
Sulle ultime tue righe, ti dirò: non sei entrato nel mio processo creativo, quindi è abbastanza inutile che continui a spiegarti. È solo un flash questo racconto. E fine.
Comunque, ti rassicuro: negli oltre quindici anni di scrittura e pubblicazioni, ho sempre tenuto accanto a me la grammatica italiana. Fatte mie le regole, per divertirmi, ho iniziato a distruggerle.
Prima frase: contiene due verbi legati dalla coordinazione "e". La seconda e la terza frase non mi sembra che abbiano troppe complessità da enucleare.
"E poiché... attorno alla gola": uso cacofonico del poiché ripetuto due volte; le frasi sono separate da virgole, così come è tra virgole il pensiero che gli arriva all'improvviso ("all'alba del mio oltre" ecc ecc). A stonarti non sono le virgole o le congiunzioni, ma il fatto che qui la principale è molto più breve di tutte le subordinate; l'effetto finale è un periodo cadente. Tutti questi poiché e poi? Solo la cravatta che stringe attorno alla gola, in una frasetta così? Sì, perché non ci sto capendo niente. Lei non c'è!
Successivamente, trovi una serie di punti e di frasi che iniziano per "O" o per "E": la mia intenzione era quello di raggiungere un effetto sincopato. E, e, e, e: sto respirando male. Mi sono alzato, è un giorno particolare per me (basta farsi due calcoli), sto per sposarmi e lei non c'è. Sto andando nel panico. E, e, e, e.
Nell'ultimo paragrafo, le cose tornano a posto. Lui si calma. Le frasi hanno tutta un'altra costruzione.
Ah: ricordati che non sono gli anni,ma i Km, a contare sulla qualita' ;)
In definitiva, la mia intenzione non era il flusso di coscienza, che non è nelle mie corde. Da sempre rimango affascinata quando l'estetica del brutto incontra quella del bello. Avvicinare un po' di balbettio e di cacofonia a vocaboli meno comuni.
Eheh. Tempo e chilometri vanno di pari passo, anzi, direi che sono inscindibili.
Continua a scrivere e a ricercare ancora, e ignora senza alcun problema i professori da tastiera, sei grande!
A presto,
Alessandro
E comunque sono d'accordo con te: al momento le opere fantastiche sono quelle che hanno guizzi narrativi più interessanti, più vari e di più ampio respiro per quanto riguarda le relazioni fra personaggi.
Sarei curioso di sapere quanti così detti grandi della letteratura si son sentiti puntare addosso questa sentenza.
Ma anche musicisti, pittori, eccetera…
Da parte mia già posso vantar di aver subito l'onta crudele.
I miei migliori saluti
Tristam Strauss
Quanto torni? Mi manchi.