American Horror Story: Coven
Donne contro uomini.
Streghe contro cacciatori.
Supreme contro infimi.
Una linea semplice attorno a cui costruire la storia della terza stagione di American Horror Story: Coven. Entriamo tutti nella congrega e prepariamoci ad una battaglia all'ultimo sangue tra chi detiene il potere – per nascita – e chi quel potere vuole distruggerlo – per manifesta inferiorità.
Attorno a questa linea se ne dipana un'altra, quella che finora ha caratterizzato più o meno latentemente le tre serie di AHS: il rapporto tra madre e figlio.
È questo, in realtà, il vero tema. Il vero nucleo horror della storia. Coven non sarà la miglior stagione delle tre e, probabilmente, non è neppure una serie troppo horror. È imperfetta e a tratti poco tesa. Ma è in linea con le altre due stagioni e, anzi, mette un punto alle altre due.
Con Coven, il cerchio si chiude. L'eterna lotta tra madre e figlio (o tra madre e figlia) ha un suo compimento. L'essenza femminea totale e totalizzante viene alla luce e, con essa, tutta la potenza e la prepotenza dell'esser madre – e la difficoltà di essere figlia.
In Murder House le storie erano solo storie di madri: c'era quella che aveva visto morire il figlio e che lo aveva visto resuscitare assemblato mostruosamente dal marito medico; c'era quella che aveva visto morire tutti i suoi figli e che ne voleva assolutamente uno, anche se non cresciuto nel suo grembo; c'era la madre non-madre che non aveva potuto veder nascere suo figlio e che tentava di strapparlo alla sua rivale in amore; c'era la madre incinta che portava il figlio come rivalsa e ricatto verso il marito fedifrago; e c'era la madre che aveva ucciso le sue bambine per vendetta. In Asylum, una madre che rifiuta il figlio è la causa scatenante di violenza, morte, pazzia ed efferati assassini che si ripetono nell'arco di cinquant'anni – già, quanto può essere devastante l'azione (o la non-azione) di una madre. Perché, a differenza dei padri, le madri, per la loro fisiologia, per il fatto di essere atte alla gravidanza e al parto, costituiscono il dio, la terra, l'atmosfera, il sangue e il respiro del proprio figlio.
E arriviamo a Coven. Dove di madri poco raccomandabili è pieno. La prima, Delphine LaLaurie, non esita a torturare le proprie figlie – si sente vecchia, non è più bella come loro, vuole stare al centro dell'attenzione, ma ormai non ne ha più il diritto. La seconda, la regina del vudù, Marie Laveau, non esita a sacrificare il proprio neonato alla divinità Papa Legba pur di avere la vita eterna. E la terza – la più splendente e la più terribile – Fiona Goode, la regina delle streghe, la Suprema, umilia la figlia, Cordelia, strega a sua volta, pur volendole bene. È su questo terzo rapporto che si regge l'intera serie e che si reggono tutte e tre le serie. È sulla risoluzione di questo rapporto che il cerchio di figli amati-odiati-torturati dalle proprie madri si chiude. Fiona è bella, potente, terribile. Ma una nuova Suprema sta avanzando e prosciugando i poteri della vecchia.
Per tutta la serie si ignora chi possa essere la nuova Suprema. Ma, in fondo, la risposta più sensata e logica non può che essere una. Dire Suprema è come dire passaggio generazionale. Dire strega è dire donna. Coven non è una storia di streghe ma uno spaccato su certe dinamiche femminee istintive e ataviche che muovono il mondo.
Morente e debole, Fiona guarda negli occhi sua figlia Cordelia – ormai bellissima e forte: quando sei nata, nel tuo bel visetto ho visto la mia morte, le dice. Ed è così. I figli sono il segno inequivocabile della capacità sovrumana e divina che ha la madre di donare la vita. I figli sono il segno dell'immortalità della madre. Ma i figli sono anche il segno della morte della madre. Nel figlio, una madre riverserà ogni singola goccia della propria energia; la madre si prosciugherà e il figlio prenderà vigore, fino alla successiva generazione. In questa storia, gli uomini c'entrano molto poco. Sono solo un po' di seme, sono solo schiavetti pronti a tutto, a mutilarsi e a strisciare, pur di compiacere le proprie donne.
Per una donna-strega di questa caratura, l'unico inferno non può che essere un uomo che la bracca e che la sottomette.
Per una donna-strega Suprema, l'unica forza, l'unico baluardo contro il deperimento e la debolezza, è la sterilità.
Ed ecco che, finalmente, nella lunga saga di American Horror Story, una figlia vince sulla madre. Vince abbracciandola. Ma vince perché non potrà esser madre. In fondo, è tutto molto chiaro. La Sarah Paulson che ha interpretato Lana in Asylum, partorendo e abbandonando il figlio, ha dato vita ad un mostro. La Sarah Paulson che ha interpretato Cordelia, condannata alla sterilità, farà del bene.
E la congrega è salva.
American Horror Story legge tra le trame del femminile e sa trarne concetti e visioni difficilmente esprimibili a parole. Le donne, in fondo, sono esseri straordinari. Capaci di mostrare l'invisibile, di dar vita alle Sette Meraviglie – e anche se fossero solo quattro o cinque, pur sempre di meraviglie si tratta. Che sia puttana, santa, malata, cieca, vendicativa, amorevole o spietata, la donna è in grado di contenere in sé il proprio verso e il proprio rovescio. Ma è divenendo madre che qualcosa si incrina, si spezza ed esplode. È nutrendo un altro essere dall'interno e poi partorendolo e poi attaccandolo al seno e poi vedendolo inesorabilmente allontanarsi e perdendone il controllo che qualcosa si spezza. Ed è in quel frammento, in quel legame saldo e reciso che il mondo assume il suo significato misterioso e ineluttabile.
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