Zero Dark Thirty
Anno: 2012 - Nazionalità: USA - Genere: Storico - Regia: Kathryn Bigelow
Zero Dark Thirty è un
film complesso e stratificato. Apparentemente è la cronaca
della cattura di Bin Laden, una delle attività in cui gli USA si
sono maggiormente impegnati, quasi in maniera ossessiva, negli ultimi
undici anni. Tuttavia, Kathryn Bigelow va molto più in profondità e
realizza un'opera che possiede diverse chiavi di lettura, nessuna
riducibile a genere o a tematiche standardizzate e allineate.
Bigelow punta su due
elementi fondamentali: la messa in scena del mezzo
cinematografico-televisivo-telefonico-amatoriale e la protagonista
del film, Maya (interpretata da una grandiosa Jessica Chastain).
La messa in scena del
mezzo.
Kathryn Bigelow inserisce
in ogni inquadratura schermi, computer, cellulari, videocamere di
sorveglianza, immagini agli infrarossi, immagini dei mirini, dei
radar o dei cannocchiali. Si tratta di inquadrature dentro le
inquadrature che hanno un significato inequivocabile: la Storia,
ormai, si fa con le videocamere e i cellulari; il racconto storico è
un racconto che proviene solo ed esclusivamente da immagini, che
siano trasmesse dalla tv o che rimangano negli archivi dei servizi
segreti. La prima sequenza è molto chiara: Bigelow sceglie di non
mostrarci per l'ennesima volta l'attacco alle Twin Towers, ma annulla
l'immagine e si concentra sul sonoro: cinque minuti di schermo nero,
in cui corrono le voci reali delle chiamate d'emergenza durante l'11
settembre. Terminata la prima sequenza, la regista decide di
procedere con l'operazione contraria: insiste con le immagini delle
torture e delle operazioni militari, filmate quasi in maniera
scientifica e profondamente analitica.
Scegliendo di non
mostrare l'attacco al World Trade Center e scegliendo di mostrare dettagliatamente
l'operazione della CIA in Medio Oriente, Kathryn Bigelow afferma che
la morte, in quell'undici settembre, è stata davvero reale e che la cattura
di Bin Laden è solo un racconto. O,
meglio: è vero solo in quanto racconto dello Stato e dei
giornalisti; tuttavia, nessuno ha potuto toccare con mano ciò che è
avvenuto veramente. Si può solo ricostruire immaginando o facendo
congetture, consapevoli che non tutto ciò che è accaduto verrà mai
alla luce. Per questo, Bigelow decide di ricostruire – studiando i
fatti – a modo proprio, con la creazione di un personaggio senza
cognome, Maya.
E qui veniamo al secondo
snodo del film.
Il personaggio di Maya.
Maya è un'agente della
CIA che fa della caccia a Bin Laden la sua ragione di vita –
l'unica. Maya vive lontano dagli Stati Uniti, non dice nulla di sé,
sembra non avere neppure una casa e una famiglia; di sicuro non ha un
fidanzato, né un compagno, né un amico, non è il tipo che va a
letto con gli uomini, non è il tipo che cede di fronte ad un uomo.
Ha pochissimi amici, stringe un legame vagamente definibile come
amicizia con una collega in Medio Oriente, ma nulla più. Maya è
algida, ma allo stesso tempo sensibile. La sua giornata è riempita
solo da due cose: l'ossessione per la cattura di Bin Laden e il
cibo-spazzatura. Maya, quasi in ogni sequenza, mangia le
classiche schifezze da fast food statunitense. Beve alcol, caffè o
coca cola, non la si vede quasi mai bere acqua. Nel corso del film
Maya cambia: e la crescita del personaggio è scioccante. Nella prima
sequenza assiste inorridita alla tortura di un prigioniero. Quasi non
riesce a guardare, ma non distoglie mai completamente lo sguardo. All'avanzare della storia, Maya guarderà sempre di più e torturerà. Il suo corpo si deteriorerà a causa dell'ossessione della missione.
Si spoglia del tailleur, indossa jeans e maglietta bianca, i capelli
si sciolgono e si fanno spettinati, il make-up non compare più sul
viso. Torna in America ed è costretta a vestirsi, pettinarsi e
truccarsi di nuovo in maniera impeccabile, ma il suo pensiero è
altrove, tanto che scrive sul vetro dell'ufficio del capo il numero
dei giorni trascorsi senza aver fatto nulla per catturare Bin
Laden.
Eppure, quando è il
momento della missione, Maya non sembra pronta.
Segue tutto da lontano,
attraverso uno schermo. Non entra nella casa del sospettato, non
segue i militari – gode solo a metà. Come un amplesso che non
arriva a compimento. Maya non riesce a vivere in prima persona ciò per
cui ha vissuto. Le resta il riconoscimento di un cadavere che lei –
e solo lei – decide essere quello di Bin Laden, nonostante una
donna afgana, in casa, abbia chiamato il presunto Bin Laden con un
altro nome. Maya esce di scena, monta su un aereo riservato esclusivamente a lei. Dove
vuole andare? - le chiedono e il pianto della donna sgorga senza sosta.
Allora, si fa tutto chiaro.
Maya si è costruita una pista, ha costruito una (sua) storia, in maniera
folle ed ossessiva, senza trovare mai soddisfacimento. Colma le
mancanze della sua vita nella ricerca di Bin Laden e nel cibo
spazzatura. Quando arriva il momento non ha più nulla che dia senso
alla sua esistenza. Metafora di un'America sempre in lotta contro un
fantomatico nemico senza mai essere realmente soddisfatta di ciò che
ha combattuto, sempre pronta a rivolgersi ad un nuovo nemico. Dopo gli indiani, i
nazisti, i comunisti russi e poi quelli vietnamiti, gli iraqueni, i
talebani e poi ancora una volta Saddam Hussein, in una continua
volontà di affermazione sull'altro che, come il desiderio, mai si
spegne. È forse il desiderio di trovare un'identità a scapito di
chi ce l'ha – gli USA non sono altro che una terra che ospita
popoli europei, asiatici e africani. Gli USA non hanno identità, né
storia millenaria, come Maya non ha un'identità, né storia.
Di fronte alla mancanza,
Maya non può che piangere. Niente più Bin Laden, niente più
ragione di vita.
Finale amaro, per nulla
trionfale o patriottico, un finale che la dice lunga su molti aspetti
della vita politica americana.
Katrhyn Bigelow regala un
film lungo e per nulla leggero, in cui ad una regia sapiente aggiunge
un uso del sonoro che non sbaglia mai i ritmi. Mescola lo stile
documentaristico a quello videoludico, ben esemplificato dall'ultima
sequenza, quella dell'operazione finale, in cui, tra soggettive e
oggettive, i militari impegnati appaiono tanto vicini alle soggettive
di uno sparatutto alla Call of Duty.
Più che con The
Hurt Locker, Zero Dark Thirty fa il paio con Strange Days. Nel 1995,
Katrhyn Bigelow aveva immaginato l'apocalittico capodanno del 2000: un mondo
fatto di strane telecamerine indossate sugli occhi che mostravano la
vita, la violenza e la morte altrui, in una sorta di nuova
tossicodipendenza. Per Bigelow, quella era la fine del mondo, un
mondo esageratamente complicato, in cui tutto sarebbe passato dalle
videocamere e in cui la violenza - anche la più efferata - sarebbe stata tranquillamente digerita dagli occhi. Le microcamere di Strange Days sono divenute realtà;
la violenza che riprendono è divenuta realtà. I nostri occhi
assuefatti che non distinguono tra reale e finzionale sono realtà.
Oscar 2013 per il Miglior Montaggio Sonoro.
Nomination agli Oscar 2013 come Miglior Film, Miglior Attrice Protagonista (Jessica Chastain), Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Montaggio
Commenti
Peccato che hai preso una cantonata su Strange Days..
Ma quali microcamere sugli occhi!!!
(E' palese che tu non l'abbia guardato...Peccato, gran film ultrasaccheggiato in seguito senza denuncie da un sacco di gente)
Vabbe',dai.... Transeamus.
Ma quando vedo che vado molto oltre certi limiti che mi impongo, quando non riesco più a circoscrivere il discorso, temo che possa diventare davvero dispersivo. Insomma, devo riuscire a controllarlo. Altrimenti, il mio scritto perde forma e non c'è cosa peggiore per me! Non a caso, qui, ho usato la divisione in paragrafi - cosa che non faccio mai, se non nei casi in cui le parole non riescono ad arrestarsi!