In libreria
Il traffico in strada mi ammazza. Quando esco, non vedo l’ora di parcheggiare e chiudermi in casa. Il traffico mi avviluppa in un senso di soffocamento e intrappolamento, come nel sogno iniziale di Marcello in 8 e mezzo. In mezzo al traffico anche la vita - come quel film - diventa in bianco e nero.
Fuori scuola, la peste mi chiede di andare in libreria. Non vedo i libri, non ne sento il loro profumo, avverto solo il muro di automobili tra me e l’assenza di un parcheggio in centro.
Però è un giorno speciale e la settimana è stata pesante e penso che ogni giorno dovremmo meritarci di farci un regalo, di qualsiasi tipo - altrimenti è un’occasione persa per vivere.
Il muro di auto è davvero invalicabile. E il tragitto che a strada vuota sarebbe di cinque minuti si centuplica. Ma in libreria riusciamo a entrare. Mi rilasso. Finalmente. La signora che la gestisce non è il massimo dell’empatia e non è proprio il tipo romantico di libraia che ci aspettiamo - forse ama i libri ma ha primariamente bisogno di vendere, anche solo la colla glitter messa in bella mostra accanto alla cassa, per mangiare. Ma mi rilasso.
La libreria è piccola e colorata e ha tre stanze e una stanza è solo dedicata ai bambini. La stanza dedicata ai bimbi è la più rilassante in assoluto. È quel posto in cui stacchi con la te adulta e ti puoi permettere di essere quello che sei - bambina da sempre e comunque. Essere mamma è quel posto in cui puoi essere - fortunatamente - sempre e solo bambina. E quando lì arrivano i problemi degli adulti li affronti con la stessa innocenza e voglia di pianto dei bambini.
Tocchiamo le pagine. Osserviamo i colori. Alla fine sceglie un libro molto verde e un libro molto azzurro. Davanti alla cassa, si alza in punta di piedi e mette a fatica i due libri - e la colla imprescindibilmente glitter - sul mobile. Dentro, al loro posto, abbiamo lasciato i libri morbidi per neonati, quelli solo illustrati.
“Mamma, come si chiamano i libri senza parole?”
“Non saprei… hanno un nome?”
“La maestra una volta ce lo ha detto… ppppp…. Sssss” balbetta sillabe che non hanno un continuo.
“Forse libro pop-up?”
“No!”
“Libro morbido?”
“No?”
“Allora sarà solo libro senza parole”, dico.
Ci pensa, poi parte per la tangente e dice: “Sono i libri per chi capisce la lingua dei segni”.
“Tu dici?”
L’ accostamento tra i libri senza parole e la LIS è bizzarro e sicuramente improprio, ma in quel momento è azzeccato. Essere mamma e essere bambini significa stare in un posto in cui ogni concetto si rovescia e si accosta all’improbabile - eppure tutto diventa logico.
Ci penso un attimo e cerco di tradurre e espandere la sua ultima frase:
“Aaaah… ma forse vuoi dire che ai bimbi che non sanno ancora leggere si può raccontare una storia illustrata usando la lingua dei segni, così oltre alle illustrazioni possono avere a disposizione anche le parole.”
“Eh sì, sì, giusto!” Mi dice.
Il traffico è sempre invalicabile, ma a esplorare concetti nel paese delle meraviglie il tempo passa più in fretta. Alla fermata dell’autobus vedo una mia alunna. La psicologa mi ha detto che è molto fragile e sta per cedere. Che bello poter cedere. La fragilità è quel posto dove si scontrano la te adulta e la te bambina. Quando cedi l’adulta è andata.
Finalmente la macchina si parcheggia. Il portone si chiude alle nostre spalle. È finita la giornata fuori, può iniziare quella dentro.
Sceglie di leggere il libro molto verde in solitudine. Quello molto azzurro in braccio a me. È il senso di una vertigine, come quando cadi mentre sogni - e Marcello, dall’alto del suo aquilone, si abbandona al volo sopra la spiaggia.
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