Hanno ucciso l'uomo ragno - la leggendaria storia degli 883


Nel 1994 ricevetti in regalo il Canta tu. Con le mie compagne di classe ricordo di aver passato più di qualche pomeriggio a cantare stonate le canzoni presenti nella musicassetta inclusa. Il nastro, però, era consumato soprattutto all’altezza di una canzone e quella canzone era Come mai degli 883. 

Sono passati trent’anni da quei pomeriggi e dalle altre canzoni degli 883 canticchiate senza pensarci troppo, come fossero un sottofondo musicale continuo al quale non si faceva troppo caso. Eppure, dopo trent’anni e più, siamo ancora qui a cantare quelle canzoni, che ogni tanto riaffiorano alla memoria con la stessa naturalezza delle filastrocche imparate in prima elementare.


Quando ho visto la pubblicità della serie tv di Matteo Rovere e Sidney Sibilia sugli 883, lì per lì, non ho compreso la necessità della cosa. O meglio: mi sono chiesta se fossimo davvero così distanti dalla fine degli anni Ottanta e dai primi anni Novanta per affrontare con la giusta dose di critica un’epoca che ancora non definirei storica. 

E invece era tutto giusto. Sin dalle prime sequenze ho capito perfettamente quanto la serie reclamasse a gran voce di esistere, specialmente oggi, nel 2024, specialmente per chi, come noi, è nato negli anni Ottanta. 


La storia di Max Pezzali e Mauro Repetto è l’epopea della normalità. È la storia di due ragazzi “impresentabili”.  Impresentabili come siamo sempre stati noi e come forse continuiamo a esserlo, nonostante viviamo nella società di Instagram, dei filtri fotografici, della pubblicizzazione di vite perfette.

Rovere e Sibilia, infatti, non danno vita a un’agiografia, per quanto tutta la serie sia tappezzata di momenti epici: e tuttavia i momenti epici non sono quelli che potrebbe aspettarsi un fan scatenato degli 883. Tutto è visto con gli occhi di due adolescenti che si stanno affacciando alla vita con i sogni confusi di chi vuole uscire dalla palude in cui si trova. Che poi è il sentimento che proviamo tutti a quell’età: che sia la musica o l’università o un lavoro, tutti ci troviamo a voler fare il salto, a voler trovare la nostra strada, a voler realizzare un sogno - semplicemente a voler crescere. Ed è proprio la normalità la chiave che rende eccezionale la storia narrata in Hanno ucciso l’uomo ragno. 


Pavia fa da sfondo ed è una città narrata alla stregua di ogni piccola città o paese di provincia, poco centrale, in cui tutti noi siamo vissuti; sono le giornate a scuola a scandire il tempo, poi la tappa dell’esame, dei lavori estivi, delle uscite con gli amici, delle litigate con i genitori, del tempo che vuoi afferrare e sembra fuggire via senza aver concluso nulla. 

Piano piano, nella normalità più normale, si fa spazio l’eccezionalità della musica. Questo incontro/scontro tra i due universi (il normale e l’eccezionale) produce una forte dose di ironia. Sono numerose le scene in cui si ride a crepapelle per le situazioni al limite dell’assurdo in cui i due ragazzi si trovano. E l’ironia è proprio figlia di quella normalità da adolescente sfigato che si ritrova ad affrontare cose enormemente più grandi di lui. 


Sono, infatti, le prime sei puntate quelle che davvero raccontano una leggenda - come vuole il sottotitolo: è vedere Pezzali fare funerali d’estate, mangiare il perenne lesso della madre, sono Pezzali e Repetto sotto la pioggia su un motorino scalcinato o a farsi vestire da un poco raccomandabile personaggio in un capanno fuori città a suscitare le risate e a dare la sensazione di assistere a qualcosa di unico. 


Nel momento in cui esce Hanno ucciso l’uomo ragno e i due ragazzi iniziano a partecipare agli eventi televisivi e a diventare star, pur rimanendo due ragazzetti di provincia, l’equilibrio dei due universi si inverte: la normalità lascia il posto all’eccezionalità; Massimo e Mauro lasciano il posto agli 883. L’eccezione diventa la regola. L’eccezionalità diventa normalità. L’epopea dell’adolescenza di due normalissimi ragazzi lascia il posto alla normalità della vita da star. Il pubblico nasconde il privato. Ormai la storia non racconta più una leggenda, ma solo quello che tutti noi già conosciamo - e lo fa anche in modo piuttosto crudo. Conosciamo cosa significa immergersi nell’industria della musica: lì niente è epico o bellissimo, tutto diventa improvvisamente adulto, senza lo spazio per una follia come quelle che i due amici hanno combinato assieme a Pavia. Si ride anche molto meno, forse le risate diventano amare e qua e là emerge un po’ di malinconia. 


Tuttavia, ciò che davvero conta, però, è che lo spirito giovane e "normale" rimane perenne nelle canzoni degli 883, sia quelle affrontate negli anni che la serie abbraccia, sia quelle che verranno. Come un deca e Gli anni sono un po’ le due facce temporali della stessa medaglia che raccontano benissimo cosa è stata una generazione e che, per qualche strana magia, continuano a essere canticchiante anche da generazioni che non sanno cosa siano diecimila lire o Happy Days. È nelle canzoni che rimangono i due ragazzi di provincia alle prese con le loro disavventure piccole e allo stesso tempo epiche. 


Questa, sì, era una serie giustissima, prodotta nel periodo giusto. È l’effetto nostalgia, è la sua capacità di far sentire noi, quarantenni e cinquantenni di oggi, parte di qualcosa che ancora persiste.

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