Perfect Days




Ho conosciuto Wim Wenders da universitaria. Ho dato al regista il peso dell’artista da studiare e ho visto i suoi film come oggetti da analizzare scientificamente. Ho visto Perfect Days da persona cresciuta, che prende poco sul serio le cose degli adulti e vive in maniera totale tutto ciò che la riguarda da vicino, fino a sentirsi male. Ho visto Perfect Days in un momento della vita particolare, in cui vedo le cose in modo diverso, disincantato, in cui il rapporto rischio-beneficio pende sempre verso il beneficio della mia piccola famiglia. Ho visto Perfect Days e ho capito che è un film che racconta in qualche modo la mia vita e quella di chi è come me, anche se non lo sapevo. 

Incredibile da dire: una come me, che ha quasi la fobia dei bagni pubblici e che esce da quei bagni mondandosi con il fuoco, ha provato una pace e un sentimento di protezione inarrivabili vivendo la vita del protagonista di Perfect Days, che di mestiere pulisce i bagni pubblici di Tokyo. La cura, sempre perfetta ma mai maniacale, che mette nel lucidare i tubi, nello sgrassare i sanitari, nel pulire i vetri è figlia di quella routine che ti permette di vedere davvero le cose. Viviamo nel mondo che ci obbliga a performare, a uscire dalla comfort zone perché se non esci dal luogo in cui ti  senti più sicuro sei un fallito: eppure cambiare continuamente cose, luoghi, visi, mondi, strade non ti permette di vedere molto di più di quello che fai. Il tuo cervello è preso dalla continua adrenalina del nuovo, così tanto da farti avvertire, appunto, solo l’adrenalina, mentre il ricordo non si focalizza: l’esperienza estrema su nulla ti fa concentrare. 

E invece: fare ogni giorno le stesse cose; percorrere le stesse strade; entrare negli stessi luoghi - se sei davvero una persona attenta e che vive, percorrendo l’uguale ogni giorno, hai la possibilità di scoprire ogni segreto, ogni anfratto, ogni piega di quell’uguale. Puoi guardarlo da ogni punto di vista e ogni giorno scorgerne qualcosa di nuovo. Hirayama tutti i giorni esce di casa e alza la testa al cielo respirando e sorridendo, prende il caffè al distributore automatico, percorre a bordo del suo furgone la stessa strada: eppure il cielo ha sfumature diverse, la lattina scende da un punto sempre diverso, sul furgone la musica non è mai la stessa. Wenders sposta la macchina da presa in modo millimetrico, mostrandoci le stesse cose ma da punti di vista leggermente diversi. Hirayama lava gli stessi bagni e ogni giorno in essi trova persone diverse, l’ubriaco, le studentesse, la signora gentile; il gioco del tris, a cui gioca con uno sconosciuto inviando la propria mossa da un giorno all’altro. Pranza ogni giorno del parco dello stesso tempio, seduto alla stessa panchina: ma quando alza gli occhi al cielo scorge ogni giorno raggi di sole diversi filtrare dalle stesse foglie che però si muovono in modo irregolare ogni istante che passa. Scatta la sua foto. Respira. Vive. 

Hirayama ha una vita. Di cui sappiamo pochissimo, solo quel che basta, perché a lui basta così: il suo collega, la nipote, una sorella probabilmente molto ricca, un padre che non si rende conto più di nulla e che non si comporta più come un tempo. Incontra persone, da cui cerca di trarre tutto. Forse la sua persona preferita è il senzatetto che dà spettacolo della sua arte, del suo modo di rapportarsi al mondo indipendentemente dalle regole e dagli altri; ma, in definitiva, Hirayama ama la luce e le ombre, il loro scontrarsi e produrre ogni volta qualcosa di unico. 

Quel qualcosa di unico, che accade una volta sola - e, se hai fortuna, sei lì a vederlo - non ha parole. Non è esprimibile. È solo un’emozione che ti coglie, ti perfora e a cui il linguaggio si sottrae. Non ci sono hashtag, non ci sono descrizioni, non ci sono ridondanze, non c’è chiasso, clamore, nulla. Sono emozioni che si esprimono nel e con il silenzio. E che producono emozioni che non sappiamo spiegare. Come un pianto che nasce da un sorriso e un sorriso che produce il pianto. 

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