1917



Mio nonno materno raccontava sempre dei giorni della guerra, la seconda guerra mondiale. Il destino, particolarmente ironico, decise che mio nonno dovesse iniziare il servizio di leva obbligatorio a giugno del 1940, a venti anni e sei mesi. Nonno riportava sempre gli stessi episodi, con dovizia di particolari, e i suoi occhi verdi sembravano rivedere esattamente ciò che era avvenuto sessanta anni prima. Solo in tarda età raccontò della sua rocambolesca fuga in quel di Venezia, dopo l’otto settembre, riuscendo a fuggire dalla fila in cui lo avevano costretto i nazisti: la direzione, lui, non la conosceva, solo a posteriori avrebbe saputo che il treno su cui volevano farlo salire era diretto a un campo di concentramento. Raccontava molto raramente, invece, di quella volta che una bomba gli cadde vicino: vivo per miracolo, il bambino che era accanto a lui, diceva sempre con linguaggio semplice ed efficace, “era diviso a metà”; segnava con la mano una immaginaria linea trasversale da spalla a fianco e poi chiudeva gli occhi e scansava lo sguardo: perché il ricordo era vivo e mio nonno Attilio si lasciava ancora impressionare da quell’immagine cruenta.


Del mio bisnonno Pasquale, che fece la Grande Guerra, poco si sa: da ardite e complesse ricostruzioni della mia mamma, si è evinto che partecipò alle disastrose battaglie attorno all’Isonzo, che venne catturato dall’esercito asburgico (o tedesco?) e che fu prigioniero di guerra per molto tempo. Il nonno Pasquale, da quanto ne so, non amava riportare i fatti della trincea: ricordava sempre però che lui i suoi fratelli, tutti al fronte, scamparono alla guerra, ma che il padre, addolorato per la lontananza dei figli, non resse e morì all’improvviso. 


Sia mio nonno che il mio bisnonno affrontarono due guerre terribili. E sopravvissero. Mi chiedo tuttora come abbiano fatto. Quale fortuna, quale mano divina, quale disegno li abbia salvati. Potrei dire altrettanto delle nonne rimaste a casa e del nonno bambino in guerra, una visse la

guerra sulla linea gotica, gli altri due subirono un bombardamento senza precedenti, ma sopravvissero. Mi chiedo, sempre, come sia stato possibile. 


Eppure lo è stato. 


In guerra, la sopravvivenza è inverosimile eppure, quando si materializza, proprio per le dinamiche della guerra stessa, ha del fantasioso e del miracoloso. 


Chi ha visto in 1917, il film di Sam Mendes tratto dai racconti di guerra del nonno del regista, un giocattolo senza anima, virtuosistico e fine a se stesso, forse non si è mai immerso nei racconti di guerra dei propri nonni. Forse, in quelle parole anziane e sgrammaticate, non ha sentito il terrore correre sulla pelle di fronte a un fucile o a una mina che scoppia all’improvviso o a una bomba che cade a casaccio a terra; non ha avvertito quel senso di fragile sollievo, un brivido inaspettato e quasi immeritato, incredibile, di fronte alla risoluzione positiva del racconto. 


Mendes racconta la storia di una missione suicida, quella di due soldati che, da vera e propria avanguardia, devono attraversare le linee nemiche per portare un messaggio importante a un’altra divisione del proprio esercito: occorre interrompere l’attacco programmato, perché significherebbe finire dritto dritto nella trappola architettata per mesi dai tedeschi. Il plot è semplice. Non lo è affatto la scelta stilistica. Mendes gira tutto con un unico (falso) piano sequenza: lo spazio viene scoperto piano piano; ogni centimetro di terra è visto al momento, dal personaggio e dallo spettatore. Ci si immerge così nello stato di guerra vero e proprio, quello dato dall’esplorazione dell’ignoto, che sia lo spazio da attraversare indenni o il futuro: sopravvivrò o no? Il piano sequenza è effettivamente virtuosistico, ma in questo caso rende la costruzione spaziale e drammatica lineare come non mai, quasi semplice: non si può seguire l’azione staccando, si snaturerebbe il senso di tutta la storia. A volte non si fa nemmeno caso al piano in questione, tanto appare necessario e ben architettato tra spazio e personaggio.


L’elemento videoludico è effettivamente presente: l’esplorazione dello spazio è quello dei videogiochi, un mix tra gli open world e gli shoot’em up. E, tuttavia, anche questo è un elemento di non poco conto, per nulla scontato e per nulla freddo. Il videogioco di guerra, per la sua impostazione, punta all’immersione nello scenario di guerra, straniante e allo stesso tempo in grado di mettere a nudo tutte le nostre certezze. Nulla è più inquietante di sentirsi allo scoperto, perennemente in pericolo e senza possibilità di nascondersi o proteggersi. Questa caratteristica, i creatori di videogame, non l’hanno inventata dal nulla: l’hanno ripresa esattamente dalle esperienze di guerra. A sentire i miei nonni, tutto era dato dal caso e vissuto sul momento. Impossibile la pianificazione. Le cose avvenivano e dopo, semmai, si tirava un sospiro di sollievo: la bomba che cade vicino e uccide il bambino e non mio nonno; la bomba che cade e distrugge la metà del fienile in cui non era nascosta mia nonna; il soldato nazista girato dall’altra parte mentre mio nonno, suo malgrado disertore, esce dal covone di fieno in cui era nascosto. Cose che viviamo nei videogiochi ma che i videogiochi hanno esattamente ripreso dalle dinamiche estreme e fortuite della guerra.


Per questo motivo, non ho sentito alcuna inverosimiglianza nel vedere l’azione di guerra di Blake e Schofield. Né ho trovato inverosimile “l’immortalità” del protagonista: chi sopravvive alla guerra è fortunato, compie una magia, è stato toccato, in qualche modo, dall’immortalità. In alcuni momenti ho avvertito tutta la fortuna del caso come qualcosa di estremamente volubile: e il sospiro di sollievo subito dopo l’accadimento era una costante. Il piano sequenza e la scoperta graduale delle cose, cose sì registicamente e scenograficamente costruite, ma per noi spettatori, lì in guerra con i due soldati, improvvise e casuali, sono la cifra stilistica stessa della guerra. La guerra è così, maledetta, arrogante, fortuita, stupida e bastarda. E tu lì in trincea devi solo essere più fortunato della guerra stessa. O, a volte, solo più pazzo - e sfidarla, la guerra. 

È quello che fa il caporale Schofield, animato da una serie di sentimenti improvvisi e casuali: portare a termine la missione dell’amico, salvare il fratello dell’amico, ma soprattutto sopravvivere per tornare da moglie e figlie. Nel momento di maggiore pericolo, anziché pensare e pianificare, decide di buttarsi, correre e fuggire. Fugge dalla morte come può. Corre, senza alcun intento eroico.


Le “sequenze” di maggior impatto visivo sono quelle tra le rovine di Ecoust. Dopo un proiettile schivato, Schofield perde i sensi. Si risveglia nel pieno di una battaglia terribile che coinvolge i sensi e riempie gli occhi. La guerra deve essere stata anche questo: l’occhio sbarrato, sovrastimolato e riempito per le immagini e i colori estremi cui sta assistendo. Nella prima parte di Ecoust, si gira una sequenza con i razzi di segnalazione che abbagliano e nascondono, a intermittenza, i ruderi, mostrando e nascondendo il nostro caporale in modo del tutto casuale. Impossibile trovare riparo. Le luci bianchissime vengono sostituite dalla luce rossa e bollente del fuoco. Schofield riconosce una sagoma tra le fiamme e, solo un attimo prima dello sparo, capisce essere un soldato tedesco. Corre, di una fuga estrema e prospetticamente ardita: un’inquadratura identica alle prospettive fiammeggianti di Tintoretto, uno dei pochi a farci sentire, nel Cinquecento, la materia viva e calda dei colori (per me, un vero e proprio tripudio di sensi, pancia, cuore, nonno, vita e arte tutto assieme). 






La fuga subisce una pausa, Schofield si getta in un sotterraneo e incontra una donna che si nasconde assieme a una neonata. Respiriamo. Immaginiamo una vita tranquilla, ma fuori c’è il caos e occorre affrontarlo. Se non lo si affronta non si potrà vivere davvero bene. Il ritorno a casa non potrà essere definitivo. Così, la fuga e la missione riprendono: e la corsa di Schofield via dalla morte e verso la meta si fa un labirinto di spari, corse e casualità pura. E arriva altrettanto casuale per noi, improvviso, inaspettato, il salto che Schofield fa oltre un ponte. Viviamo la caduta infinita con lui, nessuno sa cosa ci si sotto, né lui (al buio, sfido io!) né soprattutto noi: e quando l’acqua del fiume arriva ad accoglierci, pur nella violenza del suo schiaffo, è una vera e propria manna. 


Non c’è un attimo di respiro. Le pause, già lo sappiamo, sono brevissime e non definitive, non ci si riposa e si pensa già alla disperazione folle del dopo, per sfangarla, per salvarci. 


Schofield è un personaggio strano: impossibile dire qualcosa su di lui perché è lui il primo a non dire niente di sé. Schivo, pratico, essenziale, laconico fino all’inverosimile. Ha scambiato la medaglia ricevuta per la battaglia della Somme con una bottiglia di vino, perché aveva sete. Sembra non voler partire per la missione per paura, ma in realtà ha un senso pratico molto marcato e ha solo bisogno di ragionare - per tornare a casa. Non ride neppure alla battuta che l’amico gli fa sulla mano ferita, impossibilitata ora ad aiutarlo nei momenti di solitudine. Nulla. Schofield è un muro. Capiamo le cose della sua vita solo dagli occhi: quando incontra la foto di due bambine, in un rifugio tedesco, e una bambola in una casa francese abbandonata, o quando si scioglie di fronte alla neonata, le canta una canzone: con i bambini sembra saperci fare, ma alla domanda della donna “Ha figli?” lui preferisce non rispondere. Lì avverti che qualcosa lo tocca - e lui lo rimanda giù, perché, come dice brevemente rischiando di piangere, odia tornare a casa sapendo di non poter restare. Schofield mi ricorda esattamente i nonni di cui ho parlato: laconici e pratici, chiudevano tutto dentro senza lasciarsi andare ad aperte esternazioni di sentimenti, pur avendo un amore smisurato per la loro famiglia (ricordo ancora come fosse ieri, durante una passeggiata da bambina, mio nonno che mi stringe la mano e me la accarezza con delicatezza, dicendomi cose che, per carattere ed educazione, mai avrebbe potuto dire con le parole). Parlavano della guerra solo se interpellati o non ne parlavano affatto, probabilmente cercavano ancora di dimenticarla, non si vantavano di avercela fatta, no: amavano solo ciò che avevano costruito, perché quello davvero significava avercela fatta. La guerra li ha inglobati, li ha scelti, qualcun altro ha deciso per loro. Sarebbero rimasti volentieri a casa eppure hanno affrontato questa follia col senso pratico di chi vuole vivere. Che vita deve essere stata, quella di quei ventenni là. Sempre di corsa.


La corsa finale fuori della trincea mentre imperversa l’attacco, noi la corriamo con Schofield: il caporale va controcorrente, sbatte, cade, si rialza, metafora di tutto ciò che è avvenuto sinora e metafora di una vita che vuole vivere assolutamente nonostante il caso: noi viviamo e sopravviviamo con lui. Perché anche noi siamo reduci e sopravvissuti di guerra: se mio nonno Pasquale non fosse sopravvissuto alla trincea e mio nonno Attilio alla follia della seconda guerra mondiale oggi non sarei qui a scrivere. Come non sentirci noi eredi, veri e propri sfuggiti a quel massacro? Possiamo solo sentire per procura tutto ciò. 

Abbiamo potuto ascoltare dei racconti: vividi come fossero film, incredibili perché veri. Se qualcuno non fosse rocambolescamente sopravvissuto, non avrebbe potuto raccontare.


1917 mi ha fatto tornare indietro, a quando mi nutrivo di cinema e non pensavo altro che al ripetersi delle scene di un film: ho dovuto rivederlo a distanza di due giorni in lingua originale, cosa che mi ha fatto percepire ancora di più l’immediatezza e la tragicità dell’evento. Le parole non sono recitate, ma urlate, biascicate, respirate, mugugnate. Sono tutt’uno con la fatica fisica e mentale del caporale Schofield che, forse più di ogni altro, mi ha riportato l’immagine dei miei nonni sopravvissuti di guerra. Mendes mi ha fatto rivivere l’emozione di quei racconti che non potrò ascoltare più, ma che mi porterò sempre nel cuore come un’eredità preziosa - la vita. 

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