Nove mesi. Nascere di nuovo.
E con oggi sono nove mesi. Nove mesi di maternità e di peste che cresce, ride, piange, mette i denti, si alza in piedi, gioca, mostra i suoi primi interessi.
Più di ogni altro complemese, questo per me ha un significato speciale. Perché finora ho potuto dire a tutti “è stata più tempo nella mia pancia che fuori!”, intendendo così che il nostro legame era ancora viscerale e decisamente “amniotico”. Ma con oggi i nove mesi nella pancia vengono pareggiati dai nove mesi nel mondo: e d’ora in poi il suo tempo passato nel mondo è più esteso rispetto a quello trascorso dentro di me, che in proporzione sarà sempre meno.
Per me è una data importante, non so: è come partorire un’altra volta. Eppure proprio oggi sento che il tempo della mia pancia è un tempo presente e continuo. Forse perché il nostro legame è inscindibile e speciale e per quanto la mia peste deciderà di andarsene a scalare l’Everest o a scavare pozzi d’acqua in Africa, il cordone ombelicale sarà sempre lì. Invisibile, lunghissimo, a volte tiratissimo, ma sempre lì, a unire noi due e solo noi due.
Intendiamoci, il mio non è un atteggiamento da mamma chioccia che vuole tenere il figlio sempre sotto la sua ala. Tutti vorremmo che i nostri figli rimanessero piccoli tanto da entrare nelle nostre braccia. Ma vederli crescere e esplorare è quanto di più bello possa esserci.
Il punto semmai è un altro. È dare le giuste parole a qualcosa che non si può spiegare e che, nel tentativo di farlo parlare, viene sminuito.
Le madri, appena nate, sono tutte molto “strane". Confuse, stanchissime, piangono sempre, vanno avanti per inerzia e non capiscono bene cosa stia accadendo loro. Intorno hanno un mucchio di persone che sprizzano gioia da tutti i pori per il frugoletto appena arrivato e che non si spiegano il perché di tante lacrime e tanta stanchezza. Neppure le madri delle madri comprendono, perché la natura fa dimenticare tutte le fatiche e tutti i dolori.
Alla fine però ho capito il motivo di tanti periodi fatti stranamente di sconforto e disperazione. Lo ho capito leggendo Cattiva di Rossella Milone, edito da Einaudi, che ha saputo dar voce a momenti che voce non hanno. Non so se quello che dirò nelle prossime righe è quello che Milone voleva intendere con il suo romanzo sulla maternità. Ma sicuramente Milone con le sue parole precisissime e chirurgiche ha smosso in me qualcosa e mi ha fatto sciogliere quella nebulosa che avevo dentro.
Ho ricostruito pian piano avvenimenti, lacerazioni e conquiste e alla fine ho capito.
Se per tutti la nascita di un bimbo è un benvenuto, è una unione, per la madre è un distacco. Non esagero se dico che, paradossalmente (ma neppure tanto), la nascita di un bimbo per la madre è in realtà l’elaborazione di un lutto. Si sta nove mesi in totale simbiosi, comunione, armonia, fusione e poi ecco che il bambino esce, il legame fisico si spezza, si taglia.
Ci si separa.
E provate voi a ad andare in giro - che so - con un vostro occhio che vi passeggia accanto. Con il vostro cuore spupazzato da chicchessia, lontano da voi anche solo un metro. Provate a respirare quando un organo che era solo vostro e che pulsava solo sangue vostro è distante e da voi separato.
I figli ti tradiscono nascendo. Nel senso etimologico del termine. Tradeo: ti passano attraverso, tu li consegni al mondo, al mondo tramandano qualcosa di te, ma allo stesso tempo lo fanno senza di te, diventando altro da te.
Eppure hanno bisogno di te per tanto tempo ancora. Li devi accudire e il più delle volte non li capisci, non capisci perché debbano piangere se hanno mangiato e sono puliti, non capisci perché vogliano stare in braccio a dormire impedendo a te di riposare.
Tutte queste cose che non capisci, in realtà, sono il cambiamento della tua identità.
Sì, perché quando diventi madre cambi identità. Non puoi pensare di fare quello che facevi prima come lo facevi prima. Puoi fare quello che facevi prima, ma se ti ostini a farlo come prima non lo godrai e, sì, soffrirai soltanto. Puoi tornare a fare quello che facevi prima solo a patto di cambiare te stessa. Perché, lo dice Rossella Milone - e questa è la cosa che più mi ha aperto la visione delle cose - dopo che diventi madre non sei più Io, ma Noi. In una delle scene finali in cui la protagonista di Cattiva se ne va in giro da sola, lasciando la figlia a casa e illudendosi di essere davvero sola, i verbi che a lei si riferiscono sono ora alla prima persona plurale anziché alla prima singolare: sono queste le pagine che più mi sono appartenute (in un libro che mi è appartenuto completamente) e che hanno svelato l’arcano di tutte le dissonanze provate in questi mesi. Cosa c’è che non va ora? Mi chiedevo. Adesso l’ho capito. Non sono più io ma noi. E questo cambiamento è doloroso e allo stesso tempo complesso e necessario. È andare in giro nel mondo in uno e essere due, per sempre, è andare in giro in due entità separate ed essere uno, per sempre. È uno sforzo cognitivo non da poco. È uno sforzo d’identità non da poco: perché passiamo tutta la vita senza sapere bene chi siamo e come siamo e poi arriva un figlio e tutto questo ricomincia da capo.
Credevo fosse una sciocchezza quando leggevo “nasce una mamma”, ma mi sono resa conto che è vero. Solo che la gestazione di una mamma è molto più lunga, dura forse tutta la vita: a ogni cambiamento del figlio anche la madre deve mutare e assestarsi.
Il momento in cui davvero la nebulosa si scioglie è quando la vita comincia a cadenzarsi su un ritmo a due e, ovviamente, a tre. Perché anche il papà ha le sue beghe da risolvere. Riconoscere come propria carne un esserino che non ha mai tenuto in grembo e che non può allattare e che può far proprio solo abbracciandolo, un esserino con cui si unisce dopo nove mesi e da cui, dopo tanta attesa, deve imparare a separarsi: no, non deve essere facile nemmeno per un papà. E una mamma e un papà stanno lì entrambi in modo diverso a vivere questo passaggio da Io a Noi due e poi da Noi due a Noi tre.
Del resto, credo che anche la mia creatura stia vivendo una situazione analoga, forse più complessa. Lei è stata abituata solo a essere fusa in me e i nove mesi seguiti alla sua nascita sono stati una grossa novità a cui abituarsi con fatica. E la fatica è tanta. Lo vedo da come trangugia il mio latte e si attacca al mio seno anche solo per coccolarsi. Lo vedo da come non perde occasione per mordermi, in qualsiasi punto del corpo, che sia il mento, il ginocchio, persino la pancia. Lo vedo da come chiede le mie braccia e le mie soltanto, con una disperazione tale che sembra mancarle l'aria, la terra sotto i piedi - sembra persa nel vuoto. E lo vedo nei suoi occhi purissimi, senza giudizi e pregiudizi, aperti al nuovo, che si schiudono sorridenti quando si sveglia e mi vede. E sembra dire: "ma allora ci sei. Ci sei sempre!".
Oggi, dopo nove mesi, sento che sono all’inizio di questa nuova fase della crescita della mia peste e della mia nuova nascita. Poi, certo, ogni donna è diversa e diverso è il suo approccio a suo figlio. Soprattutto se si è estremamente sensibili e riflessivi come me la cosa può avere tempi molto lunghi: non dimentico nulla e cerco di vivere ogni istante nel modo più profondo possibile. Ho tempi lenti per qualsiasi cosa. Figuriamoci per segnare un passaggio importante come questo. Che è importante per me, ma anche e soprattutto per la mia peste. Perché la mia peste ha il diritto di avere una madre e un padre consapevoli fino al midollo di quello che stanno facendo, regalandole nel modo più esatto e completo le possibilità infinite che le si pareranno davanti e che lei, da piccolo e poi grande umano autonomo che sarà, sceglierà.
Immagine: Silvestro Lega, Una madre, 1884
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