Tenera è la notte

 Quello che unisce una coppia appartiene solo a quella singola, irripetibile coppia: dipende dalle condizioni dei singoli, dallo sfondo storico, sociale, economico e da quanto la stessa coppia riesce a farsi permeare da o resistere alle spinte esterne.
Fitzgerald scrive un romanzo complesso e modernissimo, che mi lascia senza parole, tanto il suo senso è qui, ora, fatto dei tanti episodi di mondanità che costellano le pagine, ma è anche giù, nel profondo, nelle segrete della schizofrenia di Nicole e dell’alcolismo di Dick. Una profondità che, però, è sempre mantenuta in superficie dallo stesso scrittore, che sa bene che quello che si vede è diretta conseguenza di quello che c’è dietro, dentro ognuno di noi. 

Chiedo scusa se quelle che seguiranno saranno parole in libertà: ma Fitzgerqld scava e dentro mette tutto, ma alla fine, quel tutto rimane in te inafferrabile, tanto inafferrabile da rasentare il nulla - da farti sperimentare il nulla.

 Ecco, di fronte a un testo che mi lascia senza parole e che mi trova impreparata, con una scarsa, scarsissima capacità di analisi da parte mia, partirei forse dalla cosa più semplice che balza agli occhi: il conflitto tra dentro e fuori, che Fitzgerald mantiene volutamente su un piano superficiale. Le nevrosi, i problemi dei due protagonisti, per venire alla luce, non hanno bisogno di lunghi soliloqui, di riflessioni viscerali: bastano frasi, comportamenti, shopping compulsivi, un’infautazione per un’attrice adolescente, il dono di una costosissima pomata alla canfora alla fiamma di turno. Bastano le infinite notti fatte di risse e parole fuori luogo, di discorsi lunghi e inconsistenti, di luci al neon, di sguardi ammiccanti. Perché, tra la schizofrenia di Zelda e l’abuso d’alcol di Francis, Fitzgerald vedeva proprio questo: un ammasso di uomini e donne nell’Europa, nella Francia degli anni folli, quando tutto sembrava possibile, in arte, in letteratura, nella musica, nel costume, in quella società che tentava di risorgere (invano) dalla ferita implacabile della Grande Guerra. È un mondo, quello post bellico, che quasi non ha più senso. Deflagrano e scoppiano le forme - oppure ritornano all’ordine - deflagra e scoppia lo stile letterario sincopato che si fa jazz, blues: il mondo è scoppiato e gli uomini e le donne che lo abitano tentano di fare tutto ma non sono in grado di lasciare alcuna traccia consistente della loro esistenza: si parla di soldi, affari, moda, si cambiano mariti e mogli, ci si lascia affascinare dagli oggetti, dalle bottiglie di vino, dalla spuma del mare, ci si immerge in avventure che hanno la stessa durata e la stessa importanza di un lampione che scoppietta in attesa di rimanere fulminato. 
E Fitgerald probabilmente sente quanto questa inconsistenza esistenziale sia frivola e cozzi con quella durezza che brucia entro le sue mura domestiche. Vediamo il fuori e possiamo solo immaginare le crisi di Zelda/Nicole. Vediamo il fuori, ma possiamo solo immaginare come vada estinguendosi nell’alcol l’esistenza del promettente dottor Dick Diver/del promettente scrittore Francis Scott Fitzgerald. 

Ed eccoci alla coppia, a cosa tiene unita o disunita una coppia. Una coppia che si fa forte e si rafforza sui problemi che la caratterizza e che in essi si consuma. Una coppia in cui l’uno si dissipa nell’altra (e viceversa). Una coppia che, per non morire, sa di dover guardare al mondo esterno - quello frivolo, inconsistente - e che può sopravvivere solo grazie alla leggerezza che vede in esso. Una coppia che scoppia dandosi al nulla, ma rimanendo nella nostra mente eternamente legata proprio per quel modo tutto suo - tutto loro - che ha avuto di guardare al mondo, di sviscerarlo per giungere alla conclusione che, in fondo, il mondo è nulla. 

So perfettamente che, se dovessi scegliere un’opera d’arte da accostare a questo libro, dovrei scegliere Picasso e il suo periodo cubista più estremo, quello della scomposizione e della quadridimensionalità. Ma sceglierò Boccioni e la sua prima versione degli Stati d’animo. Perché in quella prima versione i colori si avvicendano veloci e piangono. Le onde delle pennellate si inseguono e non si rapiscono. Fluttuano e non danno una versione ferma del mondo - il mondo è sfuggente e l’uomo è solo in balia di eventi inafferrabili: impossibile fermare il tempo e l’esistenza lasciando traccia di sé. Tutto viene travolto, tutto nasce, esiste e tutto scompare - tace. 

Ecco, forse non sarà proprio una visione da critico letterario né da critico d’arte. Ma se dovessi riassumere in un’immagine il romanzo di Fitzgerald userei quella di un palloncino ad elio in cui il bimbo ha riposto tutte le sue speranze; un palloncino luminoso e leggero, tanto affascinante quanto fragile è il suo appoggio alla terra. E quel palloncino all’improvviso si scioglie dalla stretta, così, nemmeno noi sappiamo come, per un colpo di vento o per chissà cos’altro. E si alza, silenzioso e solo, nel cielo stellato e sempre più nero. Per un attimo, dall’alto, può vedere tutto, può capire tutto, tutto il caos in un grumo silenzioso - fino a sparire nel nulla e senza un perché.

Commenti

Maria D'Asaro ha detto…
Magistrale ... Complimenti. Buon mese di Settembre.