Per i veri outsider non è mai Halloween



Tempo di Halloween. Tempo di cose strane. 
Quando ero bambina, Halloween non esisteva, il 31 ottobre era semplicemente il 31 ottobre.
Adesso che Halloween esiste anche qui, i mostri sono stati istituzionalizzati e, almeno per un giorno, le stranezze sono legali.
Ma - per cortesia - le stranezze vere, i mostri veri, lasciateli in pace. Sì, perché con Halloween non hanno nulla a che fare. 
Forse è stato Tim Burton a sdoganare il mostro: e allora tutti giù a far la parte dei mostri, dei freak incompresi, catene, occhiaie, capelli tinti di nero, schiene ingobbite e gente che non ti rivolge il saluto. 
Però. Ecco. Questi mostri dell’ultima ora, a mio modestissimo avviso, non sono veri mostri. Non sono veri freak. Perché non si vergognano di agghindarsi come un palo della luce rotto in mezzo alla tempesta del secolo. No. Questi ne vanno fieri. 
Il vero mostro, il vero freak, si vergogna di mostrarsi. Il vero outsider sa di esser outsider, ma fa di tutto per non mostrarsi al mondo in quanto tale. Si camuffa, recita, indossa una maschera, suda, soffre: e le parole gli muoiono in bocca anche mentre parla in mezzo alla gente. Il vero outsider, di solito, è quello che sta bene con se stesso o con una manciata di persone. È quello che subisce il mondo. È quello che guarda la gente e proprio non la capisce. È colui che guarda la gente e si chiede se quella stessa gente abbia un dietro, un dentro, una vita intima, nascosta, tutta sua, che non sia solo un Ci vediamo alle sette per l’apericena. 
Il vero outsider è quello che, in mezzo alla gente, non spiccica parola, perché si vergogna del proprio pensiero, forse troppo articolato per essere espresso: e perché sa che, appena parlerà, dirà la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Il vero outsider è quello che arriva in tuta acetata ad una festa in cui tutti indossano abitini e tacchi dodici. Ed è quello che, una volta che fa la piega ai capelli, si ritrova in mezzo a gente spettinata e con il fango sotto le scarpe. 
Il vero outsider è sempre fuori luogo. Gli altri, magari, neppure lo calcolano, ma quell’occhiata brevissima e infinitesimale che lo fa sentire davvero fuori luogo c’è sempre - e pesa come un macigno. 
Il vero outsider è colui che da bambino ha fatto a cazzotti con se stesso e che, da adulto, pur continuando a non sopportare nulla del mondo e pur continuando a sentirsi fuori luogo in ogni occasione, ha imparato a recitare la parte della persona normale. 
Qual è il punto?
Il punto è che l’outsider, col suo mostro dentro, con le sue emozioni tanto forti da sfiorare l’entropia, vuole semplicemente essere una persona normale. Con una vita normale. Che fa cose normali. Senza che nessuno possa guardarlo e puntargli il dito contro. No, non mi sono mai fidata di quelli che si atteggiano a freak, che si agitano in vite esteriormente al limite. No, ribadisco: quella è gente che non si vergogna di niente, quella è gente che il suo posto nel mondo se lo prende e lo fa anche con una certa dose di sfacciataggine. 
L’outsider vuole essere fuori dal coro, ma avere una vita normale. Avere un lavoro normale. Sposarsi. Avere una casa. Fare di figli. Abbellire le fioriere del proprio balcone: e non per imitare il vicino che le abbellisce per organizzare ogni estate feste da lounge bar figo sul proprio terrazzo. No, lo vuole perché gli piace la bellezza e vuole godersi incantato i propri fiori. 
L’outsider vero, infatti, sa che tutte le cose normali che desidera, in realtà, nel momento in cui le otterrà, le vivrà come se fossero le cose più speciali dell’universo. 
Per questo, l’outsider vero, di fronte ad un normalissimo lavoro, anche se poco pagato, dirà che non si sarebbe mai aspettato di riuscire a lavorare. Quando si sposerà, penserà che non avrebbe mai immaginato di poter trovare quell’amore così vero e di essere riuscito a celebrarlo di fronte a tanta gente. Tutto ciò che di bello gli capiterà, pur nella sua banalissima normalità, sarà sempre un dono speciale, mai scontato. Perché, quando ha ottenuto tutto questo, il vero outsider sa che ha dovuto lottare infinitamente per farsi accettare dagli altri, per accettare se stesso e tutte le proprie mostruosità, per trovare un proprio posto nel mondo senza tradire se stesso.

Tornerei solo un attimo a Tim Burton. E in particolare a The Nightmare before Christmas. Un film che ha fatto epoca, ma che spesso viene analizzato solo tramite le forme e i colori che propone.
Ragionerei sul titolo. Incubi prima di Natale. Perché?
Perché Natale è un po' l’emblema della tranquillità. La serenità, la normalità, la famiglia, la cura, la casa, l’atmosfera ovattata. È tutto ciò che il vero outsider, quello che nasce troppo sensibile e con tutto un continuo agitarsi dentro, desidera per tutta una vita. Raggiungere la normalità e la serenità, una normalità e una serenità vere e soprattutto coscienti, implica grande fatica, per chi è outsider. Implica dover vivere costantemente nell’incubo, nell’inadeguatezza di sé in un mondo sin troppo schematico, che non sa veder bene, che non sa vedere oltre e che facilmente ferisce. 

Eppure, un giorno, all’improvviso, svegliarsi dall’incubo e trovarsi nel pieno di un’atmosfera calda e accogliente è quanto di più vicino ci sia all’aver appreso il senso di tutte e le cose - e questo solo in pochi riescono a viverlo.

Immagine di proprietà della pagina Facebook Ufficiale The Nightmare before Christmas e disponibile seguendo questo link

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