Perché è indispensabile avere sempre sul comodino un Dylan Dog
Dylan Dog Mater Dolorosa - Testo: Recchioni Disegni: Cavenago (pag. 30, particolare) |
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LUI. Perché è indispensabile avere sempre sul comodino un Dylan Dog? Perché è indispensabile se il tuo comodino è in realtà una mensola di dieci per dieci centimetri su cui navigano oscillando e cadendo oggetti di varia natura - orologio, iPad, libri, cellulare, graziosi ninnoli a ricordo di giornate indimenticabili?
Perché mi ostino a tenere questo disordine colossale nello spazio di una mattonella? E perché Dylan Dog se ne rimane lì, in pole position nei luoghi del mio relax quotidiano, se posso trasportarlo comodamente in libreria, dall'altra parte della casa?
La risposta che mi sono dato è che Dylan Dog è lì - e lì rimane - perché ha la stessa funzione di un acchiappasogni. Sapete, quei cosi dondolanti che si appendono alle porte o alle finestre, munite di dubbie piume e ciondolini informi. Dylan Dog, per me, cattura gli incubi: meglio tenerlo accanto al cuscino, in prossimità della testa.
Lei me lo fa trovare sul comodino di sera, puntualmente, nel giorno della sua uscita. A volte nemmeno mi dice di aver trovato l'albo, lo compra e basta e me lo lascia lì, in bella vista, proprio sul cuscino - Dylan Dog e la mia Lei, due acchiappasogni in un unico gesto.
Dylan Dog, per me, è stato a lungo un mistero. Ricordo che ero bambino e non osavo neppure toccarlo in edicola - era una cosa per grandi e, soprattutto, una cosa che faceva paura. Insomma: tutto quel nero in copertina, tutti quei mostri e talvolta quei cimiteri spiattellati lì davanti al mondo che scorreva assente e normale. Quando ero bambino, Dylan Dog era uno di quegli oggetti magici tabù - o una sorta di vaso di Pandora, lo aprivi e poi potevi pure non dormire per settimane.
Eppure Dylan Dog è nato dopo di me. Io ho qualche anno in più dei suoi trenta. Non avrei dovuto avere paura di lui. Lui avrebbe dovuto avere paura di me: che non mi avvicinassi a lui, che non lo sfogliassi, che non lo capissi.
LEI. Io Dylan Dog nemmeno lo guardavo, invece. Altro che tabù o vaso di Pandora. Per me era una sorta di croce al contrario. Se oggi ripenso a quello che pensavo allora di Dylan Dog mi viene da ridere.
Eppure.
Mia zia ne aveva una collezione intera. E tutto quel nero. E tutte quelle forme che da bambina non riuscivo a capire.
Eppure. In tutto quel nero già forse riconoscevo il gusto del proibito. Dylan Dog. Proibito. Se oggi ripenso a quello che pensavo allora di Dylan Dog mi viene da ridere. Però: sì. Avevo la sensazione che di fronte a me ci fosse un oggetto proibito. Nove anni appena, io, Dylan qualcosa in meno, e se ne stava lì, sparso per la casa di mia nonna, quando lo zio di turno veniva a pranzare e in pausa leggeva qualche pagina. Ero bambina e mi avvisavano di non toccare: forse avevano paura che rovinassi gli angoli delle pagine, ma io pensavo di non poterlo toccare per quello che c'era dentro - una spirale nera che ti portava giù, giù in fondo. E a nove anni non puoi permetterti di andare giù in fondo, anche se la sensibilità dei bambini, a volte, ti porta molto più giù di quello che sanno fare gli adulti.
Poi, un giorno, nella solita grande casa della nonna compare qualcos'altro. I modi di presentarsi erano gli stessi, ma qualcosa cambiava. Era un libro, non un fumetto. E, in copertina, uno dei titoli più strani e affascinanti che avessi mai letto: Dellamorte Dellamore. Avevo i soliti nove anni, forse dieci, ma ricordo come fosse accaduto oggi che a quel titolo provai un brivido, pensai che fosse geniale il suono, una sola ti di differenza e cambiava tutto - e forse non cambiava nulla. Il solito monito: non toccare, non rovinarlo.
Ebbene.
L'ho toccato. L'ho aperto. Non l'ho rovinato. Ho letto le prime due pagine. Il brivido è continuato. Altro che proibito: stavo leggendo qualcosa che mi avevano vietato, che mi metteva paura e che trovavo geniale - nella grande casa di mia nonna, una casa sterminata e silenziosa, piena di oggetti e anfratti, che, col giusto silenzio, sapeva parlarti. Ero fuori di me. Nel senso che non avevo nulla a proteggermi, niente pelle, niente carne, niente sangue. Sentivo tutto e di più del normale. Ho chiuso il libro.
No, non lo avrei più riaperto.
LUI. Trovare qualcuno con cui condividere la vita significa anche trovare qualcuno con cui condividere la paura. Abbracciarsi e avere le paure che ti girano attorno come le tre streghe di Macbeth è la cosa che più ti espone e, allo stesso tempo, che più ti protegge.
È un'estate di qualche anno fa. Un on the road toscano tra montagne e paeselli fa tappa anche presso le edicole. Io già leggo Dylan Dog da qualche tempo. Lei-che-ancora-non-è-mia-moglie, ma in fondo lo è quasi, non lo legge: e non so perché. Di solito, le passo quello che leggo - e lei a sua volta lo legge e lo ripone in libreria. Con Dylan è diverso. Chi lo sa perché.
È un'estate toscana di qualche anno fa, un'estate sul finire, un'estate in cui piove spesso. Niente escursioni, oggi, niente boschi, niente paesi: ci infiliamo nel nostro rifugio montano e decidiamo di guardare un film. Lei dice, con qualcosa nella voce che ha un brivido lontano, di voler vedere Dellamorte Dellamore. Non so di cosa tu stia parlando, le dico, ma sei convincente. Tiziano Sclavi, mormora lei, e io lo so, lo sento che sei ancora più convincente.
Il film nasce, si sviluppa e conclude di fronte a noi due gelidi e immobili, con il temporale fuori e le nuvole che hanno inghiottito il picco della montagna. Sono le cinque del pomeriggio, ma sembrano le due di notte. Fuori tutto fa paura. E sullo schermo passano quelle tombe, quel cimitero, come sulla copertina di quei Dylan che, da bambino, guardavo in edicola e non toccavo. Ce ne stiamo immobili e gelidi, come bloccati in un tempo di tanti anni fa, quando da bambini non capivamo granché del mondo e lo vivevamo come se fosse stato un sogno. Mi addormento, forse mezz'ora - o un'ora. Quando mi risveglio, lei ha letto dall'inizio alla fine entrambi i numeri di Dylan che ho comprato nel paese toscano del nostro on the road solitario.
LEI. Dylan Dog ci stava aspettando - credo. Aspettava che io e lui fossimo insieme. Aspettava un temporale in alta montagna. Aspettava che il giorno si facesse notte. Aspettava che ci sentissimo protetti da venti centimetri di muro e da una finestra di legno: noi dentro, il bosco, la notte e i fulmini fuori. Dylan aspettava che incontrassi quel tepore morbido che si prova solo quando ti senti a casa. Dylan, in quella baita ti ho letto tutto d'un fiato. Sono tornata bambina, ho attraversato il lungo corridoio della casa di mia nonna, mi sono nascosta in un angolo del suo salone, ho rubato Dellamorte Dellamore e l'ho aperto, nonostante il divieto. Dopo quasi vent'anni sono riuscita ad arrivare fino in fondo. Non era il romanzo, no, erano due albi dell'edicola, ma per me è stata la stessa cosa. Ho trovato una connessione tra la me bambina e la me adulta. Nel senso: non c'è alcuna differenza tra le due me. Ho solo trovato il tunnel che le unisce. Quando sei bambino tutto attorno ti sembra nuovo, come camminare in un sogno: non capisci a fondo le cose, le interpreti a modo tuo, con le poche informazioni che hai, e completi quello che non capisci con la fantasia, i mostri, i sogni, gli incubi, i misteri, le ombre dietro le porte e i cigolii dei mobili antichi. Da bambino ne hai paura. Da grande continui ad averne paura. Ma con gli strumenti giusti la paura diventa un gioco in cui proteggersi. Dylan Dog è uno di questi strumenti. Un gioco in cui proteggersi. Una lettura con cui proteggersi.
Per questo è indispensabile averlo sul comodino.
LUI. Dylan non è più il vaso di Pandora, il tabù o la croce rovesciata. Per un adulto ancora un po' bambino alle prese con la vita dei normali - di tutti questi normali che hanno i sentimenti di un non-morto - per un adulto che non ha tempo di continuare ad avere paura del buio o delle porte che cigolano, Dylan Dog diventa la valvola di sfogo di tutto quello che disturba. Ogni volta che apri un albo ti chiedi: cosa mi dirà di me stavolta Dylan? Cosa mi farà scoprire?
E allora apro, leggo, mi espongo. Provo un brivido, ma sono nel mio letto, accanto c'è mia moglie, fuori piove - o forse non piove, ma è notte, è nuvoloso o forse è pieno di stelle a guardarci come tanti occhi indagatori. È notte, fuori piove o forse non piove: tra me e il mondo esterno, quello dei normali con i sentimenti dei non-morti, ci sono dieci, venti, forse trenta centimetri di muro.
LEI. Il confine è labile. Ma c'è il muro. E poi il letto. E poi la coperta. Mio marito. Un albo da leggere. Dai, Dylan, dimmi qualcos'altro. Dimmi cosa è la mia ansia. Dimmi come è fatta la mia paura. Dimmi quali angoli mi terrorizzano e in quali ombre ogni volta cado, anche se cerco di evitarle. Dimmelo proprio ora, mentre sono sotto al piumone con mio marito e il mondo è abbastanza lontano perché possa farci del male. Dimmelo e cullami prima di addormentarmi. Un altro tassello in quel veliero che non possiamo finire di costruire. Parlami e ancora svelami: e, come un acchiappasogni, tienimi il mondo lontano, come se fosse sempre notte. Sono bambina e sono adulta. Siamo bambini e siamo adulti. Mettici di fronte all'orrore piu orrorifico e fallo mentre siamo abbracciati: le paure ci ballano attorno, come le streghe di Macbeth, ma tra noi e loro, almeno per ora, almeno per stanotte, abbiamo costruito un muro. E, con quelle nostre, intime paure attorno al letto, comodi e caldi ci sentiamo finalmente a casa.
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