Speciale - IL VIAGGIO DI UNO E DUE parte seconda/1
Apro gli occhi. Pochi chilometri. Un confine. Un altro mondo.
Apre gli occhi. Infiniti chilometri - per lei. Un solo confine superato. Mondi e mondi da vivere e da viaggiare. Le si riempiono le iridi. Il mondo sfreccia via, oltre il finestrino del treno, e ci mostra paesaggi e realtà che vivono ed esistono, senza di noi, distanti da noi - e neppure così lontani da noi.
Qui, per la seconda tappa del nostro viaggio, siamo entrati nell’Ottocento. Quell’Ottocento elegante, raffinato, distaccato, fatto di marmi bianchi e colonne e fregi che vogliono rievocare un mondo antico, ma che del mondo antico hanno solo la dissolvenza, la decadenza - la sparizione.
Qui, anche la gente del duemilasedici passeggia come se si trovasse nel milleottocentosessanta, come se vivesse sull’oro e sugli allori di un’esistenza romantica, ricca, ma col timore che l’Impero possa cadere all’improvviso - come quando temiamo che la felicità sia minata da qualcosa che ancora non esiste.
Qui, di giorno, biondi e bionde altissimi, eleganti, in abiti firmati e ventiquattrore che sembra contenere il segreto dell’esistenza, qui gli eredi magri e sofisticati degli avi asburgici viaggiano lavorando al cellulare, attenti a non oltrepassare il confine delle piste ciclabili, a non buttare immondizia a terra, a camminare da un lato all’altro del Ring, senza ansia e senza intralciare il cammino di qualcun altro - qui, nella metropoli forse meno popolosa della terra.
Qui, di notte, si accendono le luci e i violini danno il la acuto e seghettato alla sinfonia della serata - una sinfonia fatta di abiti lunghi e chignon e frac che viaggiano leggeri e spediti in mezzo al freddo. Un freddo anch’esso leggero, ricco ed elegante. Le donne, su tacchi sottili e leziosi, danno il braccio al loro uomo, gli uomini procedono col passo sicuro di chi sa che l’Impero non cederà mai - eppure sono solo impiegati. Eppure lo svolazzo e il fruscio degli abiti si perde tra una luce e l’altra, nell’evanescenza delle stoffe trasparenti.
Qui, io e lei vaghiamo con gli occhi sbarrati, con la bocca aperta, mano nella mano, increduli di fronte ad un mondo tanto moderno e tanto antico. Ci sentiamo catapultati in un’esistenza parallela, dove i problemi e le storture vengono interrati sotto l’asfalto, come la spazzatura.
Eppure. Eppure.
Eppure entriamo nel Museo a cui lei ha dato priorità massima. Saliamo al piano che lei aspetta di vedere da una vita. Proprio qui, al secondo piano, dove fa capolino la gigantografia bianca e nera di un ragazzino coi capelli arruffati, qui, io e lei, ci stringiamo la mano e, in silenzio, piangiamo.
I frac, i gioielli, gli strass. L’Ottocento, il duemilasedici, le strade, i biondi, le piste ciclabili. L’immondizia, i violini e le sinfonie. Le colonne, i marmi, i fregi.
Qui, spariscono.
Qui, sprofondano sotto l’asfalto.
Qui, lasciano il posto allo schiaffo in faccia, al pugno nello stomaco, all’esistenza profonda e viscerale, al sangue, alla carne, ai nervi, alle macchie rossastre, turchesi e ocra, alle pennellate corpose e violente. All’arte.
Egon e Wally ci guardano dal quadrato dei loro piccoli ritratti. Egon e Wally hanno gli occhi giovani e innocenti, smaliziati e divertiti. Lui ha l’atteggiamento di quello che sa di saper fare l’artista. Lei lo ammalia, mentre lui la ritrae, e i riccioli rossastri le svolazzano qua e là, in un tripudio di gioventù e maturità, di mille anni vissuti in appena diciassette.
Usciamo. Rientriamo. Facciamo una prova. La situazione non cambia.
È come stare in chiesa. Quando entri e un senso del sacro e del solenne ti assale. Come quando senti che qualcuno o qualcosa ti stanno guardando da ovunque e da sempre.
Ecco, Egon e Wally sono così. Usciamo, rientriamo, e loro sono sempre lì, nel quadro eppure fuori del quadro. Un segno e un colore, eppure carne e sangue. Piccoli eppure giganteschi, così grandi che li senti attorno a te, davanti, dietro e, in fondo, dentro, giù in fondo, dentro di te. Li guardi negli occhi e loro sono dentro i tuoi occhi. Li guardi, ma stai guardando come loro. Li conosci, ma in realtà stai vivendo come loro, sei diventato loro. Ed è un turbinio di dolore e gioia e malinconia e vita vissuta in un lampo, uno di quei lampi che ti saettano per l’eternità tra lo sterno, il cuore e lo stomaco.
All’improvviso sai e vedi e ti ritrovi a fare un viaggio di ventotto anni in un istante. Il cervello, il fiato - ne escono spossati. Non sai che fare, se continuare a stare lì o se ricaricarti e staccarti da loro - anche se fa male.
Non sei granché lucido. Ma di una cosa puoi star certo.
Qui, qui dentro, davanti a Egon e Wally, capisci che c’è qualcosa che va molto al di là di un fregio che celebra la decadenza, di un abito e di un frac ottocenteschi in una notte di violini acuti e seghettati, qui c’è molto di più di un mondo che si ostina a vivere nell’Ottocento e a piegare i giorni nostri ai tempi andati. Qui, qui dentro, sei adesso. Egon e Wally sono ora. Erano nel millenovecentododici, ma sono qua, adesso, in questa stanza, in questo giorno. Perché, quando sai raccontare e sai carpire e sai vedere e sai vivere, niente è antico, tutto è adesso. Tutto è per sempre.
Usciamo, lenti, senza dire una parola e, ancora, col singhiozzo negli occhi.
Ci ha preso a schiaffi. Dico io.
Non ho mai sentito una tale potenza. Fa lei.
Mano nella mano, camminiamo e camminiamo per distanze che non sentiamo, stretti, in silenzio.
Non ci rendiamo conto di aver percorso almeno dieci chilometri, tutti intabarrati nei cappelli di lana e nelle sciarpe chilometriche.
Come se qualcuno o qualcosa ci avesse guidato, eccoci di fronte alla pasticceria delle pasticcerie.
Forse, sai. Dice lei. Un po’ di cioccolata ci farebbe bene.
Al calduccio, stretti ancora, gomito a gomito, guardiamo la torta ricoperta di cioccolata e ripiena di marmellata all’albicocca. Il ciuffo di panna montata. Il caffè. Osserviamo il piatto. Lei stende la mano sinistra, guarda la fede, poi torna a guardare la fetta di torta senza afferrare la forchettina.
Stavo pensando, dice lei, stavo pensando che sicuramente Egon ha mangiato la sua fetta di torta in una pasticceria del genere. Ha pure sorriso, si sarà fatto una sigaretta, avrà detto scemenze, avrà fatto arrabbiare le sue donne, le avrà amate, avrà fatto loro il solletico, si sarà addormentato tutto vestito alle due del mattino o col pigiama fresco e pulito alle nove di sera. Pensavo che era una persona normale. Eppure.
Non riesce a finire la frase. Mette in bocca il primo pezzo di torta. No. La frase non la finisce. Ma io capisco ugualmente. In quell’eppure c’è tutto quello che abbiamo capito e che, per fortuna, a volte, risulta indicibile. Le lascio un bacio sulla guancia.
Dico: l’espresso è pessimo. Mangio metà torta. Buona, aggiungo, ma dopo un po’ sei più zucchero che palato. Lei ride.
Ecco. Ecco, se ora un Egon qualsiasi ci ritraesse in questa pasticceria, vedrebbe questo. Due sposini che dicono tante di quelle cavolate su un pezzo di torta al cioccolato. Vedrebbe due fedi scintillanti. E due occhi che, fra un secolo, in mezzo a pennellate dense e a linee tortuose e colorate, proveranno esattamente quello che stanno provando ora, da qui a sempre.
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