Il giovane favoloso
Arriva subito la musica, che sin dalla prima inquadratura gonfia l'immagine e le permette di uscire dal suo imberbe stato bidimensionale; la musica che crea tensione drammatica, che è commento e insieme azione. Tempo ed emozione. Una musica che spesso attinge a pezzi moderni - e questo rende la storia attuale e universale, in grado di farci avvicinare non a quel Leopardi un po' asettico e sapientone che campeggia nei libri di letteratura, ma al Giacomo uomo, conte, eroe, pezzente, genio ed emarginato.
Tuttavia ci si accorge subito che la musica si staglia su uno sfondo pittorico di grande caratura: non solo fotografia, ma proprio pittura, Arte. Siamo condotti negli interni di Silvestro Lega e ci ritroviamo negli spazi aperti di Fattori e Signorini e tutto si alterna a echi di una pittura italiana romantica poco conosciuta, intrisa di drammaticità e buoni sentimenti ma, soprattutto, caratterizzata da quei colori terrosi, bruciati, scuri che ritornano costantemente a cesellare Recanati e Firenze. Una volta che la storia di sposta a Napoli, invece, sono una luce e un buio caravaggeschi a farla da padrone - e alcuni squarci drammatici dello Spagnoletto, che narrò visivamente Napoli, i suoi bassifondi e i suoi reietti.
Caravaggio sta nell'ambigua e infernale scena del lupanare (che ci ha riportato alla memoria, con un certo piacere, sprazzi pasoliniani e felliniani), vera e propria cesura tra il Leopardi-mente e il Leopardi-corpo.
E, infatti, protagonisti indiscussi del film sono i corpi. Quelli antitetici di Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri, il secondo chiaro (e impossibile e ideale) alter ego del primo. Più procede la storia, più Giacomo si piega, soffre, si contorce per i dolori, si abbandona nervosamente al suo bastone; e più procede la storia più Antonio si fa prestante e bello, tombeur de femme, ideale di bellezza mediterranea e antica. Giacomo e Antonio ci vengono mostrati entrambi nudi, il primo gracile e storto, il secondo virile e possente. Leopardi non fa che guardare e spiare Antonio e le sue amanti - e non è chiaro se sia geloso di Antonio, delle sue amanti o se stia semplicemente osservando una realtà forse a lui ignota, una realtà altra che avrebbe potuto essere la sua. O, forse, una realtà talmente conturbante, caotica, carnale, sporca, fumosa e soffocante che ha bisogno di essere trasfigurata per essere compresa. Giacomo diventa un testimone privilegiato del mondo, delle sue strutture. È un flaneur.
Arriva in basso, a toccare un fondo terribile, quello del lupanare, e torna in alto, altissimo, a contemplare e comprendere le stelle. È qui che si risolve l'equivoco. L'equivoco e il pregiudizio sono quelli che ci portano a considerare Leopardi solo scolasticamente, un saccente e un intellettuale privo di vita. Non si riesce ad andare oltre un suo mero schematismo. Tanto che oggi, credo, Giacomo sarebbe felice di essere finito nei libri di letteratura, ma sarebbe oltremodo arrabbiato perché giudicato genio in relazione alla sua sofferenza. Uno che ha scritto quello che ha scritto solo perché sfortunato.
La realtà, però, è un'altra. Il poeta, l'artista, è colui che osserva. Racconta, poi osserva ancora e più osserva più sviscera il mondo, va a fondo, strappa via i veli, arriva al nocciolo. Quel nocciolo è incomprensibile, il vero non si lascia afferrare. Occorre allora dubitare. Da questo dubitare scettico e disincantato nascono le parole più alte di un poeta che è stato innanzitutto uomo - goloso, desideroso di vita e di amore. Un uomo che, come molti altri uomini che nascono con la poesia dentro, sa vedere più e oltre degli altri.
Antonio comprende perfettamente questa capacità dell'amico e si lega a lui in modo indissolubile, perché, per contro, proprio in lui, in Leopardi, Antonio riesce a vedere quell'ideale di uomo e di mente che vorrebbe essere ma che non è. Antonio e Giacomo sono due facce della stessa medaglia, insieme sono l'uomo perfetto, kalos kai agathos, bello e buono: un ideale forse esistito solo nel mito della Grecia antica e un ideale solo inseguito e mai raggiunto nell'insoddisfazione generale, intima e storica dell'uomo romantico.
Scrive Kant che il sublime non è tanto l'atterrirsi di fronte agli irrazionali spettacoli della natura, quanto la capacità dell'uomo di percepire l'infinito.
Ecco. Certi uomini riescono a guardare le cose e a sentirne l'infinito; a sentire l'infinita trama che le sostiene; a sentire le infinite implicazioni della natura. Sentire l'infinito è anche sentirsi sulla stessa onda di quegli uomini che hanno fatto grande il mondo cercando di interpretare e concretizzare l'incommensurabile. E Giacomo si sente un nano sulle spalle (infinite) della cupola di Brunelleschi o della Pompei sepolta e sopita sotto la cenere del Vesuvio. Si sente piccolo, pur nella grandezza irrefrenabile del suo ragionamento. Si sente insignificante, irrequieto, privo di equilibrio. Ma non dimentichiamoci che l'infinito, per essere tale, deve atterrirci, stordirci, disturbarci - non può stare in equilibrio. E infatti, a volte, l'infinito può nascere tra le costole di una schiena storta che cammina sbilenca e invisibile tra l'indifferenza di tutti.
Commenti