Gravity
Scrivere un film sul
nulla interiore può essere tra le cose più difficili e pericolose
da affrontare – in termini creativi. Si rischia di cadere nel
facile melodramma, di sbagliare i tempi, di essere troppo tragici o
troppo buonisti, di cadere nel ridicolo.
Il trucco per evitare una
serie di errori grossolani può essere scegliere una metafora – ed
è quello che fanno solo i grandi artisti.
Una metafora che diventa
il contrario del nocciolo della questione.
Se bisogna raccontare il
nulla interiore, allora sceglieremo il nulla cosmico.
Il nulla del tempo e
dello spazio, il nulla dei giorni, il nulla del cielo che, superata
l'atmosfera, non è più neppure definibile come cielo. Cielo è una
parola che in sé nasconde ancora qualcosa di afferrabile, quel
qualcosa che non possiamo raccogliere tutto in uno sguardo, ma che
possiamo raccontare.
Ecco, in Gravity non c'è
neppure più il cielo – quello poetico, quello colorato a matita
dai bambini con un azzurro improbabile o quello che gli innamorati
guardano con occhi languidi tra un bacio e l'altro. Non c'è alba, né
tramonto, c'è solo una luce che rischiara o rabbuia un luogo di per
sé né illuminato né buio. Non ci sono le stelle, ci sono puntini
luminosi che definiscono il vuoto. Non c'è la terra – no –
perché quella palla colorata vista da lontano non odora di casa. È
solo un altro elemento fluttuante e senza appiglio.
Nel vuoto non ci
sono appigli. E si cerca disperatamente la gravità, pur non
essendoci alcuna gravità. Quando si fluttua. Quando non si hanno i
piedi per terra. Quando si cade nel vuoto, è difficile trovare un
appiglio. O avere la forza di cercarne uno.
Come raccontare il vuoto
di una madre che ha perso la figlioletta per un incidente banale e
sciocco e incredibile? In tanti ci hanno provato, ma è inutile
indagare l'indagabile. Di sicuro, dentro si crea il vuoto e un buco
nero si allarga nel petto
della mamma.
Cuarón rovescia i
termini. Non racconta il vuoto dentro la mamma. Mette la mamma nel
vuoto dell'universo. La fa precipitare, le fa perdere l'ossigeno, la
fa andare alla deriva in mezzo alle stelle, la fa peregrinare da sola
nello spazio – il tutto per un altro banale incidente su una
stazione spaziale. E Cuarón incalza: quando sembra tutto finito,
ricomincia tutto da capo. L'odissea verso la salvezza non termina
mai. Non c'è pace. C'è solo il vuoto che si colma con la ricerca
del pieno. C'è l'assenza di gravità che cerca la gravità. C'è
l'universo che cerca una terra a cui fare da cielo.
L'uomo è infinito.
Questo è un dato di fatto. Sono infinite tutte le emozioni che
prova, perché nessuna emozione, pure già provata, è facile da
arginare. La gioia per la nascita di un figlio dura tutta la vita e
oltre. Il dolore per la sua perdita è incontenibile. Eppure,
nonostante l'infinito, l'uomo è circoscritto. E solo grazie ai
confini l'uomo riesce a vivere – o impazzirebbe. Anche di fronte ad
una tale perdita, la madre ha bisogno di toccare terra, di smetterla
col vuoto del dolore, di ricominciare a vivere. L'infinito la
disintegra, i confini del suo corpo la spingono a lottare per non
esplodere.
E il trucco, il segreto
del confine a cui arriva Cuarón, è qualcosa a cui già tempo addietro
era giunto Kubrick. Un viaggio infinito nello spazio, nell'universo
e oltre gli universi per dirci che il vero universo, finito e
infinito, è l'utero materno. L'unico luogo fluttuante e completo da
cui tutti proveniamo.
La donna di Cuarón, dalle
profondità spaziali, passando per l'ossigeno, l'anidride carbonica e
il fuoco, viene gettata nelle profondità marine. Emerge da un
liquido amniotico e si sporca con un terriccio grezzo e ancestrale,
per incamminarsi verso il Mondo come fece probabilmente il primo
essere vivente che dall'acqua uscì per conquistare la terra.
Noi ce ne stiamo lì
davanti allo schermo a soffrire. Perché cerchiamo l'adrenalina, ma
il vuoto ci spaventa. E Cuarón lo rappresenta benissimo, questo
vuoto. Te lo fa toccare con mano, ti fa fluttuare sulla poltrona e ti
toglie il respiro. Ti toglie anche il sonoro – in un lavoro davvero
eccelso di vuoti e pieni musicali e di silenzi che non sono mai veri
silenzi ma assordanti rumori galattici.
Ed ecco allora che il
cerchio si chiude e che la metafora fa il suo lavoro. Occorre toccare
il vuoto – e averne paura – per avere voglia di ricominciare a
vivere.
Commenti
e basta :)
Come al solito svisceri metafore come un'operaia al bancone del pesce, ma, cinematograficamente parlando, ti potevi fermare qui ;)