Il capitale umano
Anno: 2014 - Nazionalità: Italia - Genere: Drammatico - Regia: Paolo Virzì
Il capitale umano non è
solo lo spaccato di un'Italia cinica e
meschina, fotografata in un periodo di feroce crisi economica e morale. Il
capitale umano è innanzitutto
l'affresco di un'umanità priva
di remore, regole, scrupoli, un'umanità che
non si ferma di fronte a nulla, che vive di bugie e falsità, un'umanità
che non è più umana. Virzì
avrebbe potuto ambientare il suo film
in un'altra epoca e ottenere lo stesso risultato: perché
- e lo si ripete - Il capitale umano
non parla del particolare, ma di una situazione più
universale.
La storia ruota tutta attorno ad un
mistero - chi guidava la jeep che ha investito il povero cameriere in
bicicletta? Ma la crime story si rivela utile per svelare tutt'altro mistero,
quello che connota i rapporti umani. Il film si apre con l'incidente e prosegue
per capitoli, ognuno dei quali affronta separatamente la giornata dei vari
protagonisti. Le scene dunque si ripetono da punti di vista diversi: il risultato è
un eterno ritorno sui fatti, ma ad
ogni sequenza il nostro senso della verità muta.
È questo
il solo modo per poter svelare una realtà che
altrimenti rimarrebbe sommersa da strati e strati di falsità, nascosta sempre dalla facciata
sociale, dalla ricchezza, da un bon ton di comodo.
Eppure, Virzì
non si ferma solo alla menzogna dell'upper class (italiana, ma pure planetaria): ci narra anche dell'arrivismo
della classe media o delle difficoltà di
chi vive in situazioni sociali degradate. A dettare le relazioni sono rapporti
basati esclusivamente sulla bugia. Solo identificandoci con il protagonista di
turno possiamo capire davvero sentimenti e situazioni. Visti dall'esterno, i
personaggi si muovono in un continuo valzer di inganni: Serena, per tutti, è
fidanzata con Massimiliano, ma non lo è. Dino sembra ricco, ma non lo è. Carla sembra la ricca mecenate
amante del teatro - e dei teatranti - ma non lo è. Tutto questo svuota i personaggi,
rendendoli talvolta simili a macchine, talvolta in grado di sprigionare una
verità atroce
e assoluta, disarmante. Ad esempio, crediamo per tutto il film che Massimiliano
sia nervoso perché ubriaco
e drogato, ma alla fine sappiamo che il motivo della sua sofferenza è
ben più profondo.
L'unico momento di verità
pressoché totale lo si ha verso il finale,
quando si sviluppa un rapporto davvero sincero, quello tra Serena e Luca. Forse
non è un caso che Virzì ci porti ai margini della società, quella delle periferie-ghetto, per
mostrarci la verità.
Luca, pur avendo mentito per salvare lo zio - un essere infimo e gretto - è
puro; la sua aderenza alle cose è
sempre estrema e totale, tanto che il
ragazzo ama disperatamente e soffre disperatamente. E non si tirerà
indietro di fronte all'ineluttabilità
dei fatti. La verità
fa capolino nel finale, ma Virzì
non ce la mostra completamente:
l'ultima inquadratura è fugace,
l'unica in cui i due personaggi si scambiano un sorriso sincero. Ma è
qui che il film deve chiudersi: perché
un film sulla falsità
umana non può
proseguire, può
solo lasciarci la speranza che tra
Serena e Luca possa prendere vita qualcosa di diverso da tutto ciò
che abbiamo visto per due ore.
Ne Il capitale umano - dove appare un diverso Virzì, oscuro, rinnovato e in grado di dire
molto ancora - ciò che
conta è rappresentare
l'uomo non in quanto uomo, fatto dei sentimenti estremi e carnali di Luca, ma
l'uomo in quanto macchina, in quanto generatore di denaro, in quanto profitto o
perdita. I due estremi di questa polarità sono
Giovanni, il grande capo, l'affarista, il dio-denaro incarnato, e il cameriere
coinvolto nell'incidente. Giovanni, paradossalmente, è
un uomo vero: perché non crede e non cede alle illusioni,
sa che la sua vita, dominata dal denaro, è una
continua bugia. Per partito preso, non crede all'innocenza del figlio
Massimiliano, non crede che la moglie sia intelligente, non crede nelle capacità
di nessuno, comprese quelle dei
fratelli, insultati di continuo: Giovanni si muove in un mondo algido,
meccanico, ma perfettamente credibile. È,
appunto, un dio-denaro personificato, qualcosa di molto vicino al demonio, con
quei capelli tirati all'indietro e simili a due infernali corna. Un uomo che scommette sulla crisi e vince, pur sapendo di costruire la
sua ricchezza sulle ceneri dei poveri.
L'altro estremo è
il cameriere: non ha un'auto, ma
pedala in mezzo alla neve, non viene pagato con regolarità, non sa che ne sarà
della sua esistenza e arranca
faticosamente. Il valore della sua vita, però, è tragicamente ben quantificato: poco più
di duecentomila euro, dice
l'assicurazione, considerando aspettativa di vita e quantità
e qualità delle relazioni familiari.
La dualità
tra Giovanni e il cameriere fa venire alla
mente il film di Cronenberg, Cosmopolis: con la differenza che Virzì
dice le cose come stanno coinvolgendo
lo spettatore in prima persona, tirandolo in ballo ed evitando di allontanarlo con
continui discorsi filosofici sul denaro.
Tutti gli uomini sono merce di
scambio, è questa
l'atroce verità.
E a dominare lo scambio è la
macchina, che nel film viene metaforizzata nella jeep di Massimiliano, nera e
oscura, guidata da non si sa chi, che uccide il cameriere come uccide le
relazioni tra i personaggi. Il film di Virzì potrebbe essere una riedizione del
nuovo millennio del pensiero di Marx, ma non lo è, perché lo sguardo di Virzì
è disincantato: il regista sa che è il
capitale a dominare gli uomini e non il contrario; le cose non si risolveranno
solo rovesciando i termini e le polarità sociali.
Gli unici fattori che possono dare valore alla vita sono le relazioni e i sentimenti,
qualora questi risultino veri e sinceri.
Un'opera davvero sorprendente,
l'ultima di Virzì.
Dietro una crime story, il regista cela una serie di riflessioni profonde e
amare, che disturbano e amareggiano lo spettatore. L'impianto registico è
solido, essenziale ma monumentale per
la perfezione dell'incastro delle sequenze, per l’ambientazione minimale, per la fotografia algida giocata sui toni di grigio e,
soprattutto, per la recitazione degli attori. La regia è
solida, sì, ma il cast la fa da padrone,
sprigionando una bravura che di rado, ultimamente, si vede nel nostro cinema.
Di sicuro, è merito
di Virzì,
sempre in grado di dirigere gli attori con maestria e di tirare fuori da loro
interpretazioni di tutto rispetto, costruite in maniera millimetrica ma sempre
molto vere. Bentivoglio, Bruni Tedeschi, Gifuni (immenso!), Golino, Lo Cascio
sono lì in
qualità di
mostri sacri: ma anche i più giovani
si difendono benissimo, proponendo una recitazione fluida e scanzonata, quella di chi si è affacciato al palcoscenico da poco e lo affronta senza troppe sovrastrutture.
Il film si chiude dando il senso di
una fredda perfezione, quella dell'ingranaggio in cui si infilò
in maniera del tutto nuova Chaplin nel
suo Tempi Moderni. È un
ingranaggio ormai impossibile da smontare; tutta la società
è meccanizzata,
perfino il cinema è una
macchina: solo in pochi sono riusciti a uscir fuori da un uso in serie del
mezzo filmico, Chaplin in primis, ma poi, per l'Italia, Carmelo Bene, citato da
Virzì con
Nostra Signora dei Turchi. E non è un
caso: perché Bene
fece cinema negando il cinema, dissolvendolo, annullando la macchina da presa e
i suoi meccanismi, compresi quelli della recitazione. Il cinema, per Bene, non
era niente, ma la doppia negazione suggeriva che il cinema era tutto, in realtà, quel tutto sfuggente, quel tutto vero e a volte irriducibile a qualsiasi tipo di arte. Per contrasto, Virzì
realizza un'opera agli antipodi
rispetto a quella di Bene, riuscendo a far coincidere forma e contenuto. Se
Bene non è quantificabile
con la sua opera imprendibile, Virzì ci
mostra un'umanità,
invece, perfettamente quantificabile. È atroce
ed è vero:
quando il film si chiude con l'ultima dissolvenza rimane uno schermo buio,
uno specchio in cui, nolente, lo spettatore deve riflettersi, uno specchio in
cui, però,
non vede più nulla.
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