OLTRE L'IMMAGINE E IL SUONO - 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO, sequenza finale
"La fonte musicale sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita" Pier Paolo Pasolini
Ieri si facevano discorsi seri, al ristorante. Discorsi importanti. Dio. Cosa è Dio, dove è Dio. La religiosità, come la viviamo, i diversi gradi (?) di credenza, ateismo, agnosticismo. Io me ne sono stata per lo più zitta, ho articolato qualche frase, delle quali non ero neanche molto convinta. Come mio solito, insomma.
Devo dire che non saprei proprio che dire di Dio, della mia religiosità o non religiosità. Forse su certe cose non si hanno concetti afferrabili.
Solo, quando si parlava di queste cose, ieri a tavola con gli amici, standomene zitta, ho pensato a delle immagini. A quasi nove minuti della sequenza di un capolavoro.
Il nostro protagonista, un astronauta, ha esplorato in lungo e in largo l'universo, alla ricerca del mistero del monolite nero, che è comparso anche alle scimmie all'alba dell'uomo. Il nostro astronauta, vittima di una ricerca forsennata, si imbatte nei confini dell'universo e li supera. Minuti interminabili di un vero e proprio trip oltre l'universo, una serie di luci, colori, vuoti e risucchi. In attesa di quale "fine" possa avere "l'oltre l'universo", il nostro astronauta, inaspettatamente, con la sua navicella, approda in una antica casa in stile settecentesco.
E' eccezionale il modo in cui Kubrick alterna le soggettive alle oggettive. L'astronauta incontra un altro astronauta: è semplicemente lui più vecchio. Il vecchio astronauta incontra un uomo che mangia. E' lui stesso ancora più invecchiato. L'uomo che mangia si rivolge al letto e vede se stesso decrepito, sfinito e in punto di morte. Il silenzio è accecante, come il bianco della stanza. Il vecchio morente si protende di fronte a sè. Vede il monolite nero. Poi, un feto nel suo sacco amniotico. Allora capiamo che tutto quel bianco è il blank, lo schermo bianco su cui si dice vadano in scena i nostri sogni mentre dormiamo, o, possiamo dire noi, il blank (lo schermo bianco e vuoto) è la traccia mnestica della nostra vita nell'utero materno.
I confini del monolite nero si rompono. Appare l'universo. La luna, piccola. La terra, un po' più grande. E vicino un altro pianeta, immenso, nella sua circolarità e perfezione: il bimbo nella pancia della mamma. La musica esplode, la tensione del silenzio si lacera, il trionfo di un mistero che, inesplicabile, è comunque chiaramente di fronte ai nostri occhi.
Kubrick ha creato una delle scene che più spiegano e che più lasciano al mistero.
L'infinito in noi.
Io ho pensato a questa scena e ho pensato che, forse, è quella la divinità.
Ieri si facevano discorsi seri, al ristorante. Discorsi importanti. Dio. Cosa è Dio, dove è Dio. La religiosità, come la viviamo, i diversi gradi (?) di credenza, ateismo, agnosticismo. Io me ne sono stata per lo più zitta, ho articolato qualche frase, delle quali non ero neanche molto convinta. Come mio solito, insomma.
Devo dire che non saprei proprio che dire di Dio, della mia religiosità o non religiosità. Forse su certe cose non si hanno concetti afferrabili.
Solo, quando si parlava di queste cose, ieri a tavola con gli amici, standomene zitta, ho pensato a delle immagini. A quasi nove minuti della sequenza di un capolavoro.
Il nostro protagonista, un astronauta, ha esplorato in lungo e in largo l'universo, alla ricerca del mistero del monolite nero, che è comparso anche alle scimmie all'alba dell'uomo. Il nostro astronauta, vittima di una ricerca forsennata, si imbatte nei confini dell'universo e li supera. Minuti interminabili di un vero e proprio trip oltre l'universo, una serie di luci, colori, vuoti e risucchi. In attesa di quale "fine" possa avere "l'oltre l'universo", il nostro astronauta, inaspettatamente, con la sua navicella, approda in una antica casa in stile settecentesco.
E' eccezionale il modo in cui Kubrick alterna le soggettive alle oggettive. L'astronauta incontra un altro astronauta: è semplicemente lui più vecchio. Il vecchio astronauta incontra un uomo che mangia. E' lui stesso ancora più invecchiato. L'uomo che mangia si rivolge al letto e vede se stesso decrepito, sfinito e in punto di morte. Il silenzio è accecante, come il bianco della stanza. Il vecchio morente si protende di fronte a sè. Vede il monolite nero. Poi, un feto nel suo sacco amniotico. Allora capiamo che tutto quel bianco è il blank, lo schermo bianco su cui si dice vadano in scena i nostri sogni mentre dormiamo, o, possiamo dire noi, il blank (lo schermo bianco e vuoto) è la traccia mnestica della nostra vita nell'utero materno.
I confini del monolite nero si rompono. Appare l'universo. La luna, piccola. La terra, un po' più grande. E vicino un altro pianeta, immenso, nella sua circolarità e perfezione: il bimbo nella pancia della mamma. La musica esplode, la tensione del silenzio si lacera, il trionfo di un mistero che, inesplicabile, è comunque chiaramente di fronte ai nostri occhi.
Kubrick ha creato una delle scene che più spiegano e che più lasciano al mistero.
L'infinito in noi.
Io ho pensato a questa scena e ho pensato che, forse, è quella la divinità.
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