Perché, a volte, lei sparisce - UNO E DUE
UNO E DUE prima parte - Diglielo tu; seconda parte - Allora, Prof, come continua?; terza parte - Un giorno, all'aprirsi dei boccioli d'albicocco; quarta parte - Torno a casa e mandorle ovunque
Perché, a volte, lei
sparisce.
E io sono agitato così come mi vedete ora. Lo fa spesso e
non dovrei preoccuparmi, ma comunque lo fa e vai a capire cosa le
dica la testa – cosa le dica quella stupida testa di bambina. Lei
si butta a capofitto nelle cose, le fa, le fa bene o quantomeno le fa
con passione estrema, poi sbatte contro muri su muri, sta male e
sparisce. Lei e la sua maledetta sindrome. Lei e l'altra lei nella
sua testa. Lei che ha deciso di fare un corso di cucina per appendere
un'altra certificazione nel suo laboratorio, un corso di cucina con
esame finale e ricetta da eseguire in tempo reale di fronte a una
commissione di sedicenti esperti cuochi.
Una mattina d'ansia in
attesa dello squillo del cellulare, in classe, coi ragazzi che fanno
un casino epocale e io che me ne frego – del loro casino. Tengo la
suoneria del telefono alta, pure mentre spiego, e ogni tanto butto un
occhio allo schermo del cellulare – e niente, non squilla. Poi un
messaggio – esame passato, ma col voto più basso, mi hanno
contestato il tipo di pomodoro che ho deciso di usare, non hanno
nemmeno assaggiato, hanno solo guardato e annusato un po'. Non mi
cercare.
La chiamo subito. Ma la
voce preimpostata e senza ansie dell'operatore telefonico mi dice che
l'utente non è raggiungibile. L'ha fatto, l'ha fatto di nuovo.
Penso. Lo sta facendo di nuovo. Penso. Tanto è il bisogno di
rimanere sola che neppure me vuole. E lo so che poi passa, che poi
torna tutto normale, ma io tranquillo non sto. Non tanto perché non
so dove sia. Ma perché è di nuovo in crisi – e sta male.
La mia giornata a scuola
è ancora lunga. Tre ore in classe, pausa, collegio docenti
straordinario, ricevimento genitori. Chi me lo fa fare a rimanere
qui? Eppure rimango, anche se non dedico il minimo pensiero alle mie
classi piene di gesso. I colleghi mi parlano, chiedono voti, aprono i
registri, aprono il mio. I genitori mi parlano, i loro figli hanno
problemi e io penso solo che vorrei avere qualcuno con cui parlare,
proprio adesso, in questo istante, e cercare in questo qualcuno la
soluzione a tutti i nostri problemi, così come queste mamme e
questi papà vogliono da me la soluzione ai problemi dei loro figli.
Sono le sei di sera
quando riesco a salire in macchina per tornarmene a casa. Lei ci
sarà? Il mio telefono ha squillato tutto il giorno – sua madre,
suo padre, suo fratello, sua sorella, tutti a cercarla – io non ho
risposto, ho letto i loro messaggi, passerà, pensiamo, passerà
anche questa crisi, penso. Mi fermo a fare il pieno di benzina. Un
distributore automatico di sigarette dall'altra parte della strada mi
seduce. Attraverso e compro un pacchetto, penso. Mi immagino a
respirare tabacco e solo immaginarlo mi rilassa. Ma non compro
sigarette e non fumo. Va bene così, con l'aria del tramonto un po'
arancione, un po' grigia, un po' grigio io, un po' grigio il mondo.
Vorrei entrare in casa
precipitandomi, ma lo faccio lentamente. Infilo la chiave nella toppa
come se fosse mezzanotte e non dovessi svegliarla. Chiudo con la
stessa cura il portone. La casa odora di vuoto. Sulla penisola della
nostra cucina un foglio A quattro dipinto da una grafia scomposta ma
tremendamente creativa. Mi avvicino, senza fare caso ai miei gesti
lenti, poso le chiavi sul mobile e la giacca sul divano.
Amore mio – comincia,
comincia proprio così – amore mio. Scusami se sono sparita di
nuovo, ma è successo. Di nuovo. Tirare fuori tutta la passione che
ho per una cosa. Donarla agli altri. Con tutto l'amore che ho.
Vederla respinta. Per un motivo imprecisato. Forse perché io sono
nessuno e di fronte a me avevo cuochi a cinque stelle. Forse perché
io sono nessuno e ho provato a metterci del mio e di fronte a me
avevo cuochi a cinque stelle che non hanno approvato - questo mio - dicendomi Per stavolta passi, ma facendomi capire che sono una
mediocre. Forse perché, semplicemente, c'è incomprensione. In certi
contesti, dovrebbe essere tutto un dare e un ricevere gratuito, la
mia passione verso la tua e viceversa. Creatività. Consigli educati.
E invece mi ritrovo, come sempre, a dare qualcosa di mio, di un mio
profondissimo, e uscirne ferita. Sarà perché sono come sono? Sarà
perché vivo in mezzo agli altri senza barriere – muscoli e ossa
che camminano, anzi, anima e sangue che camminano, senza pelle né
vestiti?
Me ne sono andata in giro
tutto il giorno, cercando di rimettere a posto i pezzi. Un po' di
aria, di sole, di selciato, di panchine, di alberi e siepi e poi
ancora sole che spacca le pietre. Ho tentato di immaginarmi il mio
abito da sposa e i capelli acconciati e di immergermi solo nel nostro
pensiero, per dare un senso a una giornata sbagliata e inutile.
Poi è successa una cosa. A forza di camminare sono finita di fronte
alla gelateria in centro. Di fuori c'era un gruppo di bimbi con le
loro mani e con i loro gelati. C'era un bimbo, un bimbo tenerissimo,
che aveva le manine dove di solito le persone hanno i gomiti.
Stringeva il gelato e lo stringeva sul serio perché, per via delle
manine al posto dei gomiti, sembrava abbracciarlo, quel gelato. La
mamma gli era seduta vicino, parlava con le altre mamme, ma era molto
più vicino a lui che alle altre mamme, di una vicinanza che non ti
so dire, era un ti amo e ti proteggo, era un ti amo, ti proteggo e
sono tranquilla accanto a te, se tu sei tranquillo. E lui gustava
quel gelato e aveva quell'orologio tanto carino – da grande –
attorno al polso che avrebbe dovuto essere un gomito. Ma è andata
così. Il suo gomito – la natura l'ha reso un polso.
Pioveva, amore mio. Non
pioveva davvero. Il sole era caldo, il sole bruciava, ma addosso a
me, intorno a me e dentro di me pioveva. Mi devi immaginare proprio
così, una giornata d'estate e intorno a me un piccolo cerchio
grigio, sopra una nuvoletta, la pioggia, io con un vestito estivo
leggero, i sandali e un grande ombrello per ripararmi dalla pioggia.
Eppure mi bagno. Eppure mi piove dentro. Lo guardo a lungo, quel
bimbo. E i pezzi tornano tutti a posto. Mi sono detta. Che senso ha
tutto questo. Non me lo sono chiesto, il punto interrogativo non c'è.
Me lo sono detta: che senso ha tutto questo. E punto. A certe domande
non ci sono risposte e tanto vale parlare per affermazioni. Che senso
ha il vostro cappello da chef. Mi dico. Che senso ha la vostra
critica alla scelta del mio pomodoro. Che senso ha il vostro voto. Mi
dico. Io non sono un voto. Mi dico. Se io sono un voto, allora vuol
dire che avete davvero violato e ferito la mia passione. Che senso ha
tutto. Aprite gli occhi. Mi dico. Aprite gli occhi. Vi dico. C'è un
bimbo con le manine al posto dei gomiti che gusta un gelato pieno di
panna come se tutto il mondo fosse lì – tra il gelato e la sua
mamma.
La pioggia intorno a me a
poco a poco è cessata. Ho chiuso il mio ombrello immaginario, ma i
sandali e il vestitino leggero erano comunque fradici. E non so se di
pioggia o di qualche tipo di pianto che in un punto nascosto dentro
di me è sgorgato, lavandomi gli occhi e il cuore e il sangue e
l'anima. Sono entrata anche io nella giornata di sole di quella
mamma, di quel bimbo e di quel gelato che, a volte, meglio di ogni
altra cosa sa di felicità.
Amore mio.
Finisce così. Con un
amore mio che raccoglie tutto. Lei non parla molto. E non sa
spiegarsi a parole dette. Le ci vorrà qualche ora per ritornare
quella che è, per capire che sono arrabbiato ma non ce l'ho con lei.
Per capire che voglio lei e lei soltanto, chi se ne frega della
certificazione, del laboratorio di cucina e di quello che pensano gli
altri. Ho solo voglia di vederla spuntare e di mangiare quello che mi
cucina e di bere un bicchiere di vino rosso e di stringerla davanti
alla tv, di baciarla, di intrecciarmi a lei, di guardarla dormire, di
dormire assieme. Dove sei? Dove vengo a cercarti?
Con i gomiti poggiati
sulla penisola della cucina, penso se chiamare i suoi genitori o se
bussare ai vicini, per chiedere se l'hanno vista. Ma qualcosa mi
travolge la schiena e mi stringe alla bocca dello stomaco. Qualcosa
che sa di braccia bianche e lisce, di shampoo alla pesca e di un vago
retrogusto di buona cucina.
Ma tu sei qui? A casa? Le
dico.
Ero di là a dormire. Non
ti ho sentito rientrare.
Affonda la faccia nel mio
petto, non si lascia guardare negli occhi e lo fa perché è così,
perché negli occhi in certi casi proprio non riesce a guardarti. E
però la costringo a guardarmi. Vorrei dirle. Non farlo mai più.
Vorrei dirle. Mi fai preoccupare da matti. Vorrei dirle. Smettila di
essere così. Vorrei dirle. Nulla. La bacio tra i capelli.
E poi le dico Andiamo al
ristorante, stasera?
Neanche per sogno – fa
lei – ho già impastato la pizza, devo solo stenderla, e stasera
pizza fatta in casa e birra artigianale. Ma quale ristorante.
Chiude gli occhi, mi
bacia sulle labbra, come farebbe un bimbo.
Ma quale ristorante?
Ribatto e la bacio, come farebbe un bimbo.
E come un bimbo mi
attacco alla sensazione di casa e famiglia che sento ora, abbracciato
a lei. E penso che due viene sempre dopo uno e che non avrebbe alcun
senso dire uno se dopo non ci fosse due.
Short Story by ©Veronica Mondelli - Tutti i diritti riservati
Immagine: Gustav Klimt, Coppia nel letto, 1915
Soundtrack: Yann Tiersen, Comptine d'un autre été - L'après-midi
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